Reviewed by Mauro Giuffrè, Università di Palermo (maurpurgo@hotmail.com)
[I titoli dei capitoli sono elencati alla fine della recensione.] Emanuele Narducci ha incentrato la sua attività di ricerca e di divulgazione culturale sull'osmosi tra antico e moderno. A lui è intitolato il Centro di Studi sulla Fortuna dell'Antico di Sestri Levante, che svolge con cadenza annuale delle Giornate di Studi, legate dal filo rosso della sopravvivenza e dell'importanza dell'eredità greco-latina nell'evoluzione della cultura occidentale. Gli incontri sono organizzati ogni anno da Sergio Audano e Giancarlo Mazzoli e costituiscono un'occasione, fra le più interessanti, per favorire il dialogo tra antichisti e contemporaneisti. Gli Atti delle Giornate sono pubblicati (a partire dal settimo ciclo) nella collana Echo, che è nata all'interno della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Foggia nel 2011. Come si può vedere confrontando anche le precedenti recensioni di BMCR 2010.08.32, 2011.08.51, 2011.10.09, 2013.07.49, nemmeno stavolta il volume del Centro di Studi sulla Fortuna dell'Antico delude le attese del pubblico. I contributi sono di grande interesse e sorretti da rigore metodologico. Nel segno della multidisciplinarità, essi sollevano varie osservazioni e risultano ricchi di spunti. Aricò prende in considerazione il ruolo di Stazio, che guida di Dante negli ultimi gironi del Purgatorio. A differenza di Virgilio, l'autore della Tebaide è un personaggio appartenente al racconto secondario: i canti XXI-XXII del Purgatorio, in cui compare Stazio, in primo luogo hanno un valore metanarrativo. Come da consolidata tradizione esegetica, Aricò suddivide l'incontro fra Stazio, Dante e Virgilio in scene (prima scena, vv. 1-39; seconda scena, vv. 40-77; terza scena, vv. 78-100; quarta scena, vv. 124-135) e si concentra sulla terza e la quarta. Il dialogo fra Stazio e Virgilio, come già notato,1 mostra un'analogia con l'episodio di Emmaus, esplicitamente richiamato nell'incipit del canto XXI; tuttavia, Aricò ritiene che ci sia una voluta forzatura in questo rimando. Infatti, mentre da principio il personaggio ignoto è l'ombra di Stazio, nel seguito il rimando si inverte, dato che l'ignoto diviene Virgilio. Sul piano della narrazione, quest'espediente genera un'ironia drammatica; sul piano della strutturazione dell'episodio, invece si mette in risalto un gioco di corrispondenze per analogia e antitesi. Ragno si concentra sull'epistola 84 di Seneca e su quattro sue successive riprese da parte di altri autori. Il motivo della "discendenza intellettuale" sviluppato da Seneca mostra gli inventores di una doctrina come padri di uno stuolo di figli, continuatori di un sapere primigenio. Già Lucrezio III, 9-13, usa per Epicuro il termine pater nel senso di "fondatore di una disciplina". Ragno suggerisce come precedente per la similitudine parentale il De imitatione di Dionigi d'Alicarnasso. Rispetto a Dionigi, l'approccio senecano appare tendente all'amplificazione degli aspetti naturali e alla minimizzazione dei tecnicismi. L'antitesi natura-artificio sembra inasprirsi, per promuovere l'adesione alla prima e l'opposizione al secondo. Quattro riprese in epoche diverse (di Petrarca, Barzizza, Cortesi e Lessing) testimoniano la rilevanza del modello. In Fam. 1,8; 22,2; 23,19 ("trittico sull'imitazione"), Petrarca critica Macrobio per l'uso delle fonti e rimprovera un suo giovane collaboratore, Giovanni Malpaghini, per l'eccessiva dipendenza dalla fonte. Sostenendo il metodo eclettico, il poeta inaugura un nuovo approccio al motivo senecano. Barzizza, nel suo De imitatione (1413-1417), presentando le cinque similitudini senecane, anticipa un atteggiamento sempre più infedele rispetto al modello. Infatti, gli umanisti successivi impiegheranno l'immagine padre-figli contrapponendovi le scimmie. Fra Cortesi e Poliziano scoppiò una polemica letteraria che si sviluppò attraverso due epistole del 1491. Benché entrambi riprendano l'epistola 84, i loro contenuti sono in conflitto. Cortesi provocatoriamente rivendica a sé l'etichetta di "scimmia di Cicerone"; Poliziano, invece, alle scimmie aggiunge anche pappagalli e gazze, che riproducono senza comprendere. L'epistola 84 di Seneca è anche ipotesto del Laokoon oder über die Grenzen der Mahlerey und Poesie (1766) di Lessing. Il filosofo propone il tema della "somiglianza imperfetta": si tratta di un felice impasto, che prevede anche un solo tratto comune con gli altri lineamenti. Il ragionamento è rivolto alle somiglianze tra opera letteraria e sue versioni iconografiche: il pittore, come un figlio col padre, deve incarnare non solo le fattezze, ma anche lo spirito della fonte. Cupaiuolo indaga la ricezione dei prologhi terenziani, intesi come spazio per presentare il compito di ciascun drammaturgo. Sebbene i singoli prologhi siano già stati studiati,2 secondo Cupaiuolo non risulta sufficientemente indagato l'impiego del prologo. La drammaturgia di Accio e Afranio conferma l'uso del prologo come spazio deputato alla difesa del punto di vista dell'autore drammatico. Nel tardo Quattrocento e nel Cinquecento, la produzione teatrale ebbe una rinascita su basi classiche; i commediografi predilessero il prologo terenziano, il quale consentiva una maggior libertà di affrontare problemi di critica letteraria e di sfogare la vena polemica. Testimonianza del dilemma sulla scelta del tipo di prologo si trova nella Clizia (1537) di Machiavelli. Egli scelse un prologo contemporaneamente plautino e terenziano e, sulla scorta della sua esperienza, Giovan Battista Gelli in Italia e Jean de la Taille in Francia offrono altri esempi di commistione di elementi terenziani e plautini. Nel prologo de La sporta (1543), Gelli risponde alla maniera terenziana alle possibili critiche, anche se costruisce un canovaccio plautino con molti elementi derivanti dalla tradizione greco-latina. Nel prologo de Les corrivaux (1562), de la Taille, dopo una prima dichiarazione polemica, prende le distanze dal teatro comico popolare dell'epoca ed esalta le interpretazioni classicheggianti di ascendenza greco-latina. A Machiavelli, de la Taille, Gelli, idealmente si contrappone l'Ariosto de La Cassaria, de I Suppositi, de Il negromante, de La Lena, che preferisce un'impostazione terenziana. Nel corso del Cinquecento, il prologo di ispirazione terenziana vive un'evoluzione: alcuni pezzi prodotti da scrittori di ispirazione classicheggiante divengono veri e propri numeri teatrali, che possiedono capacità drammaturgica autonoma. Esemplificativi sono la Calandria del Bibbiena (1513), il Marescalco dell'Aretino (1530), o la Trinunzia del Fiorenzuola (1549), ma anche l'esperienza teatrale di Verucci e Ben Jonson. Tra Cinquecento e Seicento, Verucci impiega i prologhi per difendersi dalle accuse dei critici malevoli, mentre Jonson, ritenendo che il prologo si prestasse bene a presentare polemicamente il punto di vista autoriale, tentò di rafforzare gli elementi che attirassero l'attenzione del pubblico. Nel corso del Settecento e dell'Ottocento, il prologo mostra due evenienze: nel primo caso, si imita esplicitamente Terenzio; nel secondo caso, si inseriscono puntualizzazioni di carattere critico. Col passare dei secoli, la riproposizione di un prologo terenziano non si può direttamente ricollegare ad una conoscenza di Terenzio, perché il prologo non-espositivo ormai rientra a pieno nelle possibilità compositive; ciò amplifica il ruolo di Terenzio quale inventore del cosiddetto "prologo programmatico". Malaspina si dedica al commento di Calvino del senecano De Clementia. Questo commento potrebbe ancor oggi risultare utile, secondo Malaspina, a patto che il lettore riesca a filtrare l'erudizione rude del suo estensore. Il commento calviniano è del 1532, quando l'autore non era ancora divenuto uno dei padri della Chiesa protestante. L'opera appare un libro giovanile, composto per mostrare competenze filologiche e indipendenza di pensiero da Erasmo. Recentemente due studiosi hanno pubblicato una monumentale edizione del commento in questione, con traduzione inglese, introduzione, commento, appendici e indici, per un totale di quasi 600 pagine.3 Questo lavoro ha ricevuto molte critiche, a parere di Malaspina motivate e condivisibili, dovute alla mancanza di un'adeguata conoscenza del testo senecano; una mancanza colpevole almeno per uno dei due autori, professor of classics a Città del Capo.4 Malaspina suggerisce che l'interesse per Calvino e Seneca derivi da una "prospettiva sudafricana", comprensibile alla luce dell'appartenenza alla Chiesa Riformata d'Olanda, che per questi temi mostra uno speciale riguardo. Malaspina argomenta che l'intento programmatico del volume, la rivalutazione delle competenze filologiche di Calvino, non pare arrivare al successo. Piuttosto, i meriti del commento risiedono nell'ampiezza delle riflessioni, elaborate nel solco di sterminate letture di classici greci e latini, che consentono a Calvino di mescolare conoscenze tra il filosofico e il fisiologico. Il contributo filologico strictu sensu appare decisamente modesto: viene modificata la punteggiatura erasmiana e proposte alcune emendazioni. Di queste, nessuna è degna d'interesse, ad esclusione della congettura itaque in luogo dell'et ita di Secondo Curione. Nicolai discute il canone letterario, partendo dal Quattrocento. Nonostante l'avvio del dibattito sui modelli e l'incremento degli autori studiati, l'Umanesimo non riscoprì il canone antico, inteso nel senso di "elenco di autori eccellenti" nei diversi generi letterari. Il canone in questo senso fu riscoperto nella seconda parte del Settecento, durante il cosiddetto "terzo umanesimo" tedesco, che si interessò alla definizione di "classico" e "canone" da imitare. Nel 1768 David Ruhnken per primo impiegò il termine "canone" per indicare un gruppo di antichi maestri da imitare. Noto col nome latino "Ruhnkenius", egli studiò storia antica e grammatica latina; a lui sono dedicati i Prolegomena ad Homerum di August Wolf. Tra i suoi lavori filologici principali si devono ricordare il De vita e scriptis Longini (1776) e l'edizione degli Inni omerici a Dioniso e a Demetra (1780, 1782). Tra gli scritti minori compare l'edizione critica del De figuris sententiarum et elocutionis di Rutilio Lupo, la quale ha come premessa un saggio dal titolo Historia critica oratorum Graecorum, nel quale compare il canone. Il canone ellenistico ricostruito da Ruhnken è quello di Aristofane e Aristarco, ottenuto dal confronto di alcune fonti: Quintiliano, Proclo, la Suda, la Biblioteca Coisliniana di Bernard de Montfaucon. A parere di Ruhnken, quest'ultima è la fonte più affidabile per la ricostruzione del canone alessandrino e la scoperta di Ruhnken fu sancita dall'autorità di Wolf. Già al principio del XIX secolo, la scoperta di Ruhnken fu criticata da Ranke, Bernhardy, Gräfenhan. La scoperta di un'antica lista di autori aprì un dibattito che non si limitò all'ambito della filologia e solo recentemente si è avuto un apprezzamento storico dei canoni letterari antichi. Ciò è merito del recupero del concetto di genere letterario5 e del tentativo di fissare uno nuovo canone.6 Rosati chiude il volume analizzando la figura di Lorelei. L'autore colloca un tassello all'interno di una ipotetica "storia della rappresentazione artistica dei capelli nella cultura occidentale e del loro ruolo nell'immaginario erotico, dalle omeriche Circe e Calipso fino a Marilyn Monroe" (p. 250). L'ondina Lorelei, che ha goduto di vasta fortuna, appartiene al patrimonio mitico legato al fiume Reno; si tratta di una ninfa che, grazie alla bellezza e al fascino del canto, seduce i naviganti. Tra i testi letterari che attingono a questo mito, vanno ricordati una ballata di Brentano (1802), una lirica di Heinrich Heine (1823-1824) e i testi musicali di Schumann e Liszt. Lorelei è un nome parlante, la cui etimologia trova spiegazione nel renano "lei" = roccia, e nel medio-alto-tedesco "lureln" = mormorare. Il suono di una cascata, che produceva nella zona un potente effetto sonoro, avrebbe alimentato la fantasia popolare che collocava, in corrispondenza di Coblenza, la presenza di una ninfa incantatrice che, come le sirene omeriche, attirava verso la rovina i naviganti. Nel gesto fortemente erotico di cantare pettinandosi i capelli, raffigurato nella lirica di Heine, Rosati vede il recupero di una serie di motivi ampiamente documentati nella tradizione classica ed elenca una serie di passi che rimandano a figure femminili con caratteristiche simili (Saffo fr. 98 V., Ovidio, Ars, III; Orazio, Carmina, 1, 5, 4; Tibullo, I, 9, 67; Apollonio, III, 45-50; Ovidio, Metamorfosi, 4, 311-312). Ad Ovidio spetta la palma nel processo di "erotizzazione dei capelli" nella storia della cultura e dell'arte europea. Due errori tipografici: pagina 179, un'opera scritto senza apostrofo; pagina 189, prima riga motiviate con "i".Indice
Prefazione (di Giovanni Cipriani) 5
Premessa (di Sergio Audano) 9
1. Giuseppe Aricò, "'Facesti come quei che va di note..'. Alcune considerazioni sull'incontro con stazio in Dante, Purg. XXI-XXII", 13
2. Tiziana Ragno, "Nel nome del figlio. Seneca, l'imitazione, le imitazioni" 49
3. Giovanni Cupaiuolo, "Tracce dell'imitazione Terenziana" 159
4. Ermanno Malaspina, "Educare il monarca in età moderna. Tra Seneca, Giovanni Calvino e gli specula principis" 183
5. Roberto Nicolai, "David Ruhnken e la riscoperta dei canoni letterari nel XVIII secolo" 203
6. Giampiero Rosati, "I capelli di Lorelei: riti della seduzione tra antico e moderno" 227
Notes:
1. Bosco, Umberto, e Giovanni Reggio. La Divina Commedia a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio. Firenze: Le Monnier, 1979.
2. Ricottilli, Licinia. La costruzione della relazione fra poeta e spettatori nei prologhi terenziani, in Clementia Caesaris: modelli etici, parenesi e retorica dell'esilio (Letteratura classica; 31). Palermo: Palumbo, 2008; Umbrico, Alessio. Terenzio e i suoi nobiles. Invenzione e realtà di un controverso legame. Pisa, 2010.
3. Ford Lewis Battles, and André Malan Hugo. Commentary on Seneca's de Clementia. Brill, 1969.
4. Maurach, Gregor. "F. L. Battles, and A. M. Hugo. Calvin's Commentary on Seneca's De Clementia". Gnomon 44: 308-311 (1972).
5. Rossi, Luigi Enrico. "I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche". Bulletin of the Institute of Classical Studies, 18: 69-94 (1971).
6. Bloom, Harold. The Western Canon: The Books and School of the Ages. New York, 1994.
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