Reviewed by Mario Andreassi, Università degli Studi di Bari "Aldo Moro" (mario.andreassi@uniba.it)
Il saggio di Veronica Ariel Valenti prende le mosse dal v. 5 del primo canto dell'Odissea (ἀρνύμενος ἥν τε ψυχὴν καὶ νόστον ἑταίρων) e propone un'interpretazione decisamente innovativa (e accattivante) del sostantivo ψυχή: scartata la consueta traduzione "vita (biologica)", l'autrice, attraverso un'indagine che valorizza le sue competenze linguistiche e filosofiche, mette in rilievo la potenzialità accrescitiva tipica dell'anima di Odisseo (e adombrata già dal participio ἀρνύμενος), la quale aderisce ontologicamente al Divenire e non all'Essere, secondo una logica simmetrica (per recuperare la teorizzazione di Ignacio Matte Blanco) che si discosta nettamente dalla logica asimmetrica tipica dell'Iliade: la logica odissiaca della ψυχή si configura alternativa a quella iliadica del κλέος. Dopo l'Introduzione, l'ampio Primo Capitolo ("Odisseo e la logica della psyche" [pp. 17-82]) appare fin dall'inizio fondato su una solida analisi linguistico-etimologica che vaglia anche le radici indoeuropee della lingua omerica. Obiettivo dell'autrice è quello di chiarire, a partire dal v. 5 dell'Odissea, sia la valenza di ψυχή (non "vita" ma "anima", "un che di sensibilmente distinto, dotato […] di verità e istanze che si manifestano nel corso stesso del processo biologico detto 'vita' senza che si possa in alcun modo farle coincidere con esso" [p. 24]) sia quella del participio ἀρνύμενος, che qui non possiede valore stativo ("mantenere, conservare") ma dinamico ("ottenere, conseguire, accrescere"). La finalità di Odisseo non è di 'mantenersi in vita' ma di 'tendere' alla ψυχή, proprio come gli eroi dell'Iliade tendono al κλέος: l'isotopia terminologica è dimostrata — osserva Valenti — da Iliade 6.446, dove Ettore ricorda ad Andromaca di aver imparato a combattere sempre in prima fila ἀρνύμενος πατρός τε μέγα κλέος ἠδ' ἐμὸν αὐτοῦ. Proprio il ruolo dinamico del κλέος, garante di immortalità per l'ὄνομα dell'eroe, consente di accertare il valore processuale di ἄρνυμαι anche rispetto al significante ψυχή. La logica del κλέος è però asimmetrica e gerarchizzante, mentre quella della ψυχή è simmetrica e ben distante dal "binarismo escludente di quella asimmetrica" (p. 46): non limitato dal nesso ὄνομα-κλέος-γένος, Odisseo è costantemente in cerca di nuovi nomi per definire se stesso e la realtà; è un uomo che abita luoghi alternativi e solo a Itaca torna (provvisoriamente, peraltro) ad aderire alla logica del κλέος. Anzi — osserva Valenti — proprio la circostanza che Odisseo, nell'Iliade, abbia già acquisito il κλέος fa sì che ora, nell'Odissea, vada alla ricerca di un fine alternativo e ulteriore, quasi che il conseguimento del κλέος rappresenti un "momento precedente nella filiera teleologica" (p. 52). Sono in effetti numerose le occasioni — opportunamente messe in rilievo dall'autrice — in cui Odisseo dimostra di porsi al di là della logica del κλέος: è più volte reticente a farsi riconoscere attraverso l'ὄνομα e, presso i Feaci, rifiuta le gare (motivo di κλέος), si sostituisce all'aedo (garante del κλέος) e sottolinea la natura umanitaria (piuttosto che motivata dal κλέος) dell'ospitalità ricevuta. Esponente della ψυχή in opposizione ai portatori di κλέος, Odisseo sceglie di vivere κατὰ ψυχήν: è appunto in funzione della ψυχή che si realizza il suo incessante 'vedere' (e dunque esperire, conoscere), reso programmaticamente esplicito nel verbo εἶδον del v. 3; a differenza del portatore di κλέος (che necessita di essere visto piuttosto che di vedere) e dell'aedo (che, cieco, deriva dalla divinità il suo vedere), l'eroe itacese ha nella ψυχή il motore del suo divenire, autonomo da ogni tipo di τέχνη o divinità. La dinamica e vitale connessione, in Odisseo, tra ψυχή, vedere ed esperire si può ben misurare in due incontri con altrettante figure femminili: se Calipso rappresenta, fin nel nome, un mondo immobile e privo della possibilità di vedere-conoscere (e dunque vivere), Nausicaa invece è connotata da una straordinaria vitalità (non a caso è paragonata a una palma), che si manifesta attraverso una terminologia saldamente ancorata alla sfera semantica del vedere e della luce. Dopo la sosta presso i Feaci, il ritorno dell'eroe a Itaca e il riappropriarsi del suo ruolo egemone segna un apparente ritorno alla logica del κλέος; non si tratta però — come chiarisce l'autrice — del bisogno di Odisseo di mostrarsi ancora capace di aderire a quel codice, quanto piuttosto della necessità di garantire il continuum generazionale con Telemaco (privo di κλέος se suo padre, dopo Troia, fosse rimasto ἄϊστος) e, soprattutto, di far sì che "si possa accogliere senza fraintendimenti lo statuto del viaggio in sé: lui, precursore, torna per indicare la percorribilità di questa via verso la ψυχή alternativa a quella verso il κλέος" (p. 73). Basata sul divenire — un divenire che Valenti associa suggestivamente a quello eracliteo — la logica odissiaca della ψυχή non può prevedere una "chiusura narcisistica" (p. 81) del poema con il riconoscimento finale da parte di Penelope, bensì essa deve dare corso al suo fluido e acquoreo divenire: come aveva profetizzato Tiresia (11.127-128) e come Odisseo ripete a Penelope (23.274-275), il ritorno a Itaca prelude a una nuova partenza, quella verso il luogo dove il remo è scambiato per ventilabro, "il luogo più estremo, quello che con la sua lingua scardina, fino a negarla, la corrispondenza biunivoca di significante e significato" (p. 81). Nel Secondo Capitolo ("Odisseo o Outis?" [pp. 83-116]) Valenti estende l'indagine al dato onomastico, soffermandosi sul nome di Outis che l'Itacese fornisce al Ciclope in Odissea 9.366. La studiosa osserva che, pur non essendoci — diversamente da altri passi omerici — una esplicita distinzione tra lingua divina e lingua umana, il termine è inteso in modo dicotomico dai protagonisti della vicenda: per Polifemo (essere di natura divina) Outis equivale al nome proprio Οὖτις, per i Ciclopi (esseri non divini) corrisponde al pronome indefinito οὔτις. Da qui nasce l'esigenza, secondo Valenti, di individuare il significato originario di Οὖτις, che ella riconduce all'idronimo trace Utus e alla base indoeuropea da cui discende anche il greco ὕδωρ. Ancora una volta, dunque, si può individuare "l'acquoreità quale marca di Odisseo", una "connotazione acquorea, eraclitea […] coerente con l'assegnazione dello statuto ontologico al divenire" (p. 93). E, ancora una volta, si può vedere in azione la logica simmetrica della ψυχή, capace di giocare con la politropia onomastica, in antitesi con la "binaristica e dicotomizzante logica del κλέος […], che vuole […] la solidità e la stanzialità dell'ὄνομα" (p. 94). Sulla base della distinzione tra lingua divina e lingua umana, Valenti mette in rilievo, con un'attenta disamina linguistica (che prevede proficue incursioni anche nel campo lessicale vedico), che la lingua degli dèi è considerata, dai parlanti greci, più trasparente rispetto alla lingua degli uomini: nell'opposizione che così si viene a determinare, Ὀδυσσεύς, "nome proprio afferente alla lingua degli uomini, legato alla logica del κλέος, quindi all'Ὄνομα nonché al Νόμος del Padre", è del tutto antitetico a Οὖτις, "nome proprio afferente alla lingua degli dèi e alla logica della ψυχή" (p. 102). Da ciò discende, secondo l'analisi dell'autrice, una specifica articolazione nel percorso identitario e narrativo di Odisseo: alla pars destruens, fondata sulla negazione dell'ὄνομα e del γένος allorché egli si dice, nella lingua degli uomini, οὔτις ("nessuno"), segue la pars construens, in cui l'Itacese, dicendosi Οὖτις-Utus, si afferma "secondo una diversa logica e una diversa lingua: la logica della ψυχή e la lingua degli dèi" (p. 108). Il dirsi Οὖτις di Odisseo — chiarisce Valenti nelle dense pagine che chiudono il capitolo — non va però inteso come "una nuova affermazione narcisistica del proprio ego" (p. 114), che finirebbe per portarlo a obbedire di nuovo alla logica del κλέος e alla dimensione dell'essere. Piuttosto, l'Itacese valorizza la divinità linguistica di Οὖτις e l'acquoreità di Utus allo scopo di iscrivere il "proprio nome nel luogo dell'Altro, un Altro non umano, bensì divino, nonché nel luogo dell'acquoreo, del fluido divenire, luogo che la sola componente incorporea di Odisseo, ossia la sua ψυχή può abitare" (p. 114). Nel Terzo Capitolo ("Encomio di Odisseo" [pp. 117-148]) Valenti costruisce un'argomentata difesa di Odisseo, la cui logica della ψυχή ha portato i lettori dell'Odissea a considerarlo ambiguamente — se non negativamente — πολύμητις, senza tener conto, invece, del suo "statuto ontologico affidato all'acquoreo divenire del naufragio e non allo stanziale essere" (p. 121). Solo questa precisa consapevolezza, questa chiara percezione del divenire 'fluviale' di Odisseo, fa invece comprendere come, in lui e nella sua azione, sia impossibile la coincidenza di Essere e Verità. Si tratta di una consapevolezza "tutt'altro che ovvia e naturale per i Greci che classificano la rinuncia all'univocità del nome come menzognera" (p. 122); nella logica del κλέος, a cui i fruitori dell'epica rispondono, "la scelta di Odisseo di una parola acquorea, che celebri il metamorfico divenire a scapito della stanzialità ontologica dell'essere, che rifugga da qualsivoglia dicotomia escludente, quindi pure dall'opposizione vero-falso", non può che apparire sospetta e, prima ancora, di ardua comprensione. Particolarmente ostico, per chi obbedisce alla logica del κλέος, è cogliere la rinuncia all'ὄνομα da parte di Odisseo per seguire invece, in un "molteplice declinarsi onomastico" (p. 127), la politropia verbale della ψυχή, "forgiando la propria 'lingua', l'idioletto della ψυχή" (p. 128). In questa prospettiva andrà colta anche la volontà di Odisseo di raggiungere la terra dei ventilabri. Egli infatti non vede in Itaca il suo approdo definitivo ma piuttosto la considera uno dei possibili ritorni: egli "abita la distanza" (p. 133) e l'annunciato nuovo abbandono dell'isola per raggiungere il luogo dove 'remo' equivale a 'ventilabro' "segnala in tutta la sua radicalità il rifiuto di Odisseo di una supina adesione alla logica del κλέος, che tende a volere un unico idioma che si faccia tramite onde leggere il mondo" (p. 138). Così aderente alla fluidità del divenire (e non alla stanzialità dell'essere), non sottoposta al manicheismo di vero e falso, la parola di Odisseo non può essere intesa come ingannevole e la stessa Odissea — chiarisce Valenti — "pare […] una manifestazione epica del molteplice nell'innocenza del divenire" (p. 141). L'Odissea documenta dunque l'"evolversi della ψυχή" del protagonista, il quale abbandona la logica del κλέος — e la possibilità, attraverso questo, di eternarsi — per giungere invece a "debellare la morte deferendola al silenzio" (p. 143): la fine del poema e quella del suo eroe non coincidono e anzi Odisseo, evocando la nuova partenza per la terra dei ventilabri, opera "una panica immersione nel fluido acquoreo processo del naufragio nell'indefinito, verso un'infinitizzazione del pensare nella circolarità dell'eterno ritorno" (p. 143). Nel breve, ma utile, Quarto Capitolo ("Diade versus monade" [pp. 149-159]) Valenti torna a esaminare il participio ἀρνύμενος del v. 5 in relazione, questa volta, al νόστον ἑταίρων. È chiaro — premette la studiosa — che il verbo "si adatta sia al dinamismo della ψυχή di Odisseo, sia alla stanzialità dei compagni" (p. 150); se infatti, nel corso delle sue peregrinazioni e dei suoi incontri con l'Altro, l'Itacese rivela un'"inesauribile μεταβολή dialogica" (p. 151), tipica di una logica simmetrica e capace di accrescere continuamente la ψυχή, i suoi compagni, al contrario, rappresentano una "compatta monade autisticamente arroccata nelle proprie posizioni, incapace di declinarsi plasticamente all'ascolto empatico della diversità" (p. 153): Odisseo è "diade dialettica" (p. 157), mentre i suoi compagni sono monade incapace di interagire con i mondi con cui entrano in contatto. E l'opposizione — osserva acutamente Valenti — è già esplicitata nel programmatico v. 5, dove Omero, legandole al participio ἀρνύμενος, presenta "le forze in campo": la logica del divenire e della ψυχή, seguita da Odisseo, prevale sulla stanzialità dell'essere rappresentata dal κλέος e dal mondo "perfetto, conchiuso, definito" a cui esso fa riferimento (p. 157). Al termine dell'avvincente percorso lungo il quale l'autrice guida il lettore, il volume di Veronica Ariel Valenti risulta decisamente suggestivo e originale. Sensibile all'esegesi filosofica non meno che a una più puntuale disamina di tipo linguistico (ne è prova, di entrambe, la corposa Bibliografia [pp. 161-186]), il saggio propone un approccio inedito all'Odissea e alla figura del suo eroe, garantendo precisi riscontri testuali e bibliografici alle osservazioni di volta in volta proposte.
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