Reviewed by Nicola Pace, Università degli studi di Milano (nicola.pace@unimi.it)
Il libro del Giordano si compone di sette contributi, di cui quattro già pubblicati, sulla ricezione di Orazio dall'antichità al XX secolo: due sono le ricerche dedicate al mondo antico (Marziale e Servio), una al Settecento (Richard Bentley), le rimanenti all'Ottocento e al Novecento (due poeti, Giovanni Pascoli e Francesco Pastonchi, e alcuni intellettuali del Mezzogiorno, tra cui spicca la figura del politico e studioso di politica meridionale Giustino Fortunato). Come risulta già da questo elenco, il Giordano non è attratto nella sua ricerca soltanto da figure di filologi o di grammatici, quali sono Servio e Bentley, che al testo di Orazio si accostavano con intenti puramente linguistici, esegetici, e filologici, ma anche da uomini di cultura solo marginalmente interessati alla lettura del poeta latino, e che in questa lettura proiettavano o la propria esperienza attiva di letterati (poeti), o una partecipazione intensa agli ideali politici, ai valori risorgimentali, tipica della migliore intelligenza vissuta nel Sud a cavallo tra Ottocento e Novecento. In questo sta l'aspetto nuovo del libro. Il volume ha il privilegio di essere introdotto dal maggiore studioso italiano vivente di Orazio, Antonio La Penna ("Fausto Giordano nel gran mare della fortuna di Orazio", pp. 7-10), che presenta i contributi del Giordano con la consueta chiarezza e lucidità, sottolineandone i meriti, e in generale la "varietà di tematiche, di interessi, di metodi" (p. 10). Se lo scopo dell'autore, come è detto nell'introduzione (pp. 11-14), è quello di sottrarsi a un'attualizzazione dell'antico che finisce per far violenza alla sua natura, disconoscendone la distanza, ed è quello di cercare nella storia dell'esegesi la chiave necessaria per arrivare alla costituzione e a all'intelligenza del testo, mi sembra che non sempre risulti evidente questo fine ultimo esegetico-filologico. Ad esempio, nel quinto contributo ("Letture nazionalistiche di Orazio nella cultura meridionale dell'Ottocento", pp. 67-76), che è tra i migliori del volume, perché contribuisce a far emergere figure poco studiate della storia della filologia classica in Italia (Carlo Lanza, Emmanuele Rocco, Paolo Fossataro), lo studio del Giordano è rivolto soprattutto all'inquadramento storico-culturale degli studiosi di Orazio, e alla definizione di un orientamento comune, che è quello dell'attenzione primaria data "all'ispirazione civile" del poeta, "che legittimava il mito del vate nazionale e nello stesso tempo consentiva di sostenere più facilmente ... la sua indipendenza dai modelli greci ed ellenistici" (pp. 69-70); non troviamo però un esempio dell'esegesi di questi studiosi che sia significativo per l'avanzamento nella comprensione del testo oraziano. Quando Giordano fa riferimento (p. 73) al commento di Emmanuele Rocco a carm. I 34,12-16 (il violento sovvertimento delle vicende umane da parte della fortuna), il Giordano non cita (e nemmeno riassume) le parole dello studioso, per cui rimane del tutto oscura la sua posizione sulla controversa questione della conversione di Orazio e del suo allineamento alla politica religiosa di Augusto. C'è dunque molto maggiore attenzione alla sintesi storico-culturale che non all'analisi dell'esegesi. Nello studio su Giustino Fortunato ("Giustino Fortunato «lettore» di Orazio", pp. 77-96), l'equilibrio tra sintesi e analisi è invece considerevole: alla presentazione del politico e del meridionalista (e dei suoi rapporti con Gramsci e con Croce) segue la trattazione dell'opera di traduttore "dilettante" (Fortunato tradusse alcune Odi e il Carmen saeculare nell'estate del 1923, quando aveva settantacinque anni): cinque pagine (pp. 92-96) di analisi dettagliata, volta a chiarire la caratteristica di fondo dell'opera del Fortunato, una fedeltà sostanziale al testo latino, che, lungi dall'aderenza servile, tende spesso ad aggiungere uno o più vocaboli per maggiore chiarezza. Dispiace solo che Giordano, nel riproporre l'articolo, pubblicato nel 1991, non abbia aggiunto in appendice alcune di queste traduzioni, per farci meglio cogliere l'arte del Fortunato. Anche nel saggio sul poeta Francesco Pastonchi, che nel 1939 pubblicò traduzione e commento del I libro delle Odi, avremmo desiderato qualche esempio esteso di traduzione: il Pastonchi, di cui in Italia si è perso quasi completamente il ricordo, rientra in quel novero di poeti raffinati inclini al Parnassianesimo del primo Novecento, che vennero oscurati dalla fama di Gabriele d'Annunzio e Giovanni Pascoli. Ma la sua sensibilità poetica, che influenzò Guido Gozzano, non è da disprezzare: il grande grecista Manara Valgimigli definì II fiorire del pesco uno dei sonetti più belli della letteratura italiana.1 È chiaro che al Pastonchi non si potesse richiedere un approccio filologico al testo oraziano e un commento attento al rapporto complesso di Orazio con i modelli greci e con il pensiero filosofico, che egli, in linea con la posizione prevalente nella cultura del tempo, tendeva a sottovalutare, per affermare l'originalità "romana" del poeta. In generale ritengo che la valutazione del rapporto tra un poeta moderno e uno antico debba essere fatta, oltre che tenendo conto della temperie culturale in cui il moderno è vissuto, con un'attenzione particolare alla sintonia artistica, all'affinità di emozioni e di stile che egli credeva di trovare nell'antico. Purtroppo lo studio su Pascoli critico del testo degli Epodi ("Il testo dell'Epodon liber di Orazio tra Kiessling e Pascoli", pp. 53-65"), che sarebbe molto interessante, in quanto intende mostrarci come il poeta sia attento ai problemi della critica del testo e, per usare la parole del La Penna (p. 9), tenda "a conservare, ma a conservare criticamente", è parzialmente guastato nei suoi risultati dal fatto che il testo e il commento di Adolf Kiessling che venne utilizzato dal Pascoli, per sua esplicita dichiarazione, cioè quello pubblicato nel 1884 (l'antologia Lyra del Pascoli è del 1895), viene citato dal Giordano (n. 4 a p. 53) nella nona edizione del 1958, curata e sostanzialmente rielaborata da Richard Heinze. Così si rivelano fuorvianti alcune deduzioni del Giordano, come in quello che il Giordano ritiene il caso più delicato di differenziazione nella scelta della punteggiatura, epod. 1,1-4, in cui la partecipazione di Mecenate alla campagna di Azio, presentata come certa dalla locuzione affermativa (Ibis Liburnis inter alta navium, / amice, propugnacula) nel Kiessling, "verrebbe messa in dubbio dall'interpunzione interrogativa adottata dal Pascoli" (p. 55); in realtà il Kiessling ha il punto di domanda, mentre è il Heinze che ha preferito la locuzione affermativa. In epod. 5, 87-88 Kiessling non ha, come sostiene Giordano (p. 56), venena magica fas nefasque, non valent / convertere humanam vicem, in cui magica è congettura del Bentley per magnum della paradosi, che il Pascoli mantiene, ma venena maga non fas nefasque, etc. (maga non è emendazione di Haupt); è dunque il testo di Heinze, con la congettura del Bentley, che Giordano cita. In questo caso è giusto dire che il Pascoli è conservatore (e il suo conservatorismo, aggiungerei, appare certo giustificato nei confronti della proposta di emendazione del Kiessling, che introduce un'anomalia metrica, un anapesto strappato), ma parlare di "molta finezza" (p. 57) a proposito della sua interpretazione del passo ci sembra discutibile: nell'interpungere dopo valent e non dopo nefasque, come fanno Kiessling e Heinze (cosa che il Giordano non nota), e nell'intendere convertere non come infinito retto da valent, ma come imperativo passivo, il poeta dà questo senso ai versi: "Grande il potere di queste maghe; bene e male non hanno valore; ebbene! Rivolgiti (contro loro: convertere, imperat.) secondo l'umano avvicendarsi di colpa e vendetta" (p.143). A parte l'uso dell'imperativo passivo della 2a persona singolare, che è rarissimo nella poesia classica (l'unico esempio che conosca è quello di Prop. III 22, 6 movēre = "lasciati spingere", che però presuppone la correzione, all'inizio del verso, di et in at), non si comprende l'interpretazione di humanam vicem, con il valore di "accusativo libero", quasi fosse humana vice, mentre viene naturale intenderlo come oggetto di convertere. Anche in epod. 13,13-14 (Te manet Assaraci tellus, quam frigida parvi / findunt Scamandri flumina lubricus et Simois) Pascoli non trovava nel Kiessling la lezione dei codici parvi, come sostiene Giordano (p. 61), ma la congettura del Meineke tardi (parvi è in Heinze). In questo caso Giordano (p. 61) giustamente sottolinea come la scelta della congettura in luogo della tradizione sia intelligentemente motivata dal Pascoli con il riferimento all'esegesi omerica di Eustazio di Tessalonica: pravi ("tortuoso"), così vicino paleograficamente a parvi, si lega all'epiteto "vorticoso" (δινήεις) dato da Omero allo Scamandro, e che il commentatore bizantino spiegava con il fatto che la corrente era lenta e il letto del fiume tortuoso (cf. soprattutto comm. ad Β 877, I 583, 2-4 van der Valk). Forse la più ambiziosa delle ricerche del Giordano è quella sulle citazioni di Orazio in Servio ("Il testo di Orazio nelle citazioni di Servio", pp. 25-39), per la complessità della tradizione di Orazio nella tarda antichità (sarebbe stato opportuno tenere in considerazione lo studio di Fabio Stok del 19962) e per la varietà di lezioni che troviamo in Servio; occorre tra l'altro ricordare che le edizioni critiche che danno un'informazione dettagliata sui manoscritti, la Harvardiana (libri I-V dell'Eneide), e quelle di G. Ramires (VII e IX) e di E. Jeunet-Mancy (VI), coprono solo una parte del commento (otto libri dell'Eneide). Un esempio significativo di questa difficoltà è dato dalla citazione di carm. I 7, 9 (aptum dicet equis Argos ditisque Mycenas); qui, come nella citazione di serm. II 5, 39, il Giordano vuole mostrare come Servio prediliga "il modo indicativo ed il tempo presente rispetto al tempo futuro dei codici" di Orazio (p. 33). In realtà la situazione non è così semplice: la tradizione di Orazio in carm. I 7, 9 è ugualmente divisa tra le varianti dicet e dicit (nell'apparato dell'edizione teubneriana del Klingner la prima è attribuita alla redazione Ψ, mentre la seconda a Ξ); anche nei due passi del commento di Servio all'Eneide che citano il verso oraziano (ad I 24; XI 246) i codici hanno lezioni diverse (nel primo passo dicet è del subarchetipo Δ, mentre dicit di una parte significativa dei codici del ramo Γ; nel secondo dicit si trova, tra i codici di maggior peso, soltanto in F, il Parisinus Lat. 7929 del Servius auctus), ma è molto probabile che la lezione che aveva Servio nel suo esemplare di Orazio fosse dicet (e su questo concordano Thilo-Hagen e gli editori harvardiani, stampandolo nel testo), in quanto nel processo della citazione (rispettivamente ut Horatius "aptum dicet ..."; Argos, de quo Homerus Ἄργεος ἱπποβότοιο, Horatius "aptum dicet ...") dicet, non avendo soggetto (plurimus del v. 8 non era citato), veniva legato ad Horatius (significativo l'errore di trasposizione di B in ad I 24: ut Horatius dicit aptum) e inconsciamente corretto in dicit. Nello studio su Servio e Orazio vogliamo segnalare alcune imprecisioni e punti di dissenso: il nesso intonsis capillis di carm. I 12, 41, attestato da Quint. Inst. IX 3, 18 (contro la paràdosi, Servio e Carisio, che hanno incomptis capillis), non è estraneo all'usus scribendi di Orazio (come sostiene Giordano, p. 36): in epod. 15, 9 troviamo intonsos ... capillos. A favore della lezione incomptis però giocano indubbiamente i seguenti fatti, non ricordati dal Giordano: 1) gli intonsi capilli sono, in Orazio, Tibullo (II 5, 121) e Ovidio (Met. I 564), sempre e solo quelli di Apollo; 2) la ripresa inequivocabile di Marziale (I 24, 1), che, oltre al nesso incomptis capillis, ha al v. 3 Curios ... Camillos (Curium ... Camillum in carm. 1.12.41-42). La lezione cura in carm. II 8, 24 non ha alcuna attestazione nei codici significativi della tradizione oraziana e perciò non viene nemmeno menzionata negli apparati di Keller-Holder (1899), Vollmer, Klingner, Borzsák; solo Shackleton Bailey la ricorda, attribuendola a non precisati codices deteriores. Non andava dunque presa in considerazione come concorrenziale nella tradizione rispetto ad aura (p. 37). Concordo infine con il La Penna (p. 8) nel ritenere la lezione doctum (carm. I 12, 11) che troviamo in Servio, e accolta dal Giordano, una banalizzazione per blandum della paradosi: alle argomentazioni del La Penna aggiungerei che blandus in Orazio si trova talvolta usato o direttamente in riferimento ad Orfeo (carm. I 24, 13; III 11, 15) o a chi, come lui (Anfione in ars 395), è in grado di silvas ducere e saxa movere. C'è da chiedersi se la banalizzazione di Servio non sia stata causata dall'accostamento di blandus a doctus in epist. II 1, 135 (docta prece blandus).
Notes:
1. M. Valgimigli, La mula di don Abbondio (Bologna 1954), p. 85.
2. F. Stok, "La tradizione antica di Orazio", RCCM 1, 1996, pp. 65-82.
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