Reviewed by Lucia Pasetti, University of Bologna (lucia.pasetti@unibo.it)
Le Metamorfosi godono, almeno da vent'anni a questa parte, di uno speciale interesse, che si è tradotto in una bibliografia in costante crescita: l'ultima rassegna, curata nel 2000 da Schlam e Finkelpearl, richiederebbe oggi consistenti aggiornamenti, tra cui comparirebbero una nuova edizione delle Metamorfosi (Martos 2003) e diversi esemplari della serie, ormai quasi completa, dei commenti groningensi ai libri del romanzo (Groningen Commentaries on Apuleius; d'ora in poi GCA). Di questa intensa attività, Maaike Zimmerman è stata in molti casi direttamente partecipe. Dirò subito che uno dei punti forti del suo lavoro è proprio la capacità di confrontarsi criticamente con l'enorme mole di riflessioni recentemente suscitate dalle Metamorfosi: non solo Zimmerman mette a frutto, com' è naturale, la sua esperienza di commento, ma affronta anche il compito di una equilibrata revisione delle proprie scelte, recependo, ad esempio, molte proposte interessanti elaborate di recente. 1 Il risultato della sintesi è una nuova e aggiornata costituzione del testo. Sintesi e chiarezza emergono fin dalla prefazione, che in poche pagine affronta questioni fondamentali: dopo un breve inquadramento generale in cui non mancano cenni – rapidi, ma bibliograficamente aggiornati – ai grandi problemi interpretativi (ad es. quello, tutt'ora aperto, dell'unità del romanzo), l'attenzione si concentra sulla tradizione del testo. La trattazione dei problemi codicologici è opportunamente contestualizzata sul piano storico: nel ricostruire le vicende che separano l'edizione tardoantica confezionata da Sallustio e la comparsa, a Montecassino, del manoscritto più antico che ne conserva le tracce (il ben noto Laurenziano 68.2, sec., dell'XI sec., siglato F), Zimmerman fa sue le recenti conclusioni di Carver sulla circolazione del testo di Sallustio nell'Italia centro meridionale tra il IV e l'XI sec. Una certa attenzione viene rivolta anche alla ricezione di F in ambito umanistico e al lavorio condotto su questo tormentato manoscritto: anche in questo caso Zimmerman si avvantaggia dei risultati di studi recenti. Quanto alle questioni stemmatiche, Zimmerman si assesta (come già Martos) sulle posizioni di Robertson, che individua in F l'unico capostipite dei manoscritti a noi noti. Nonostante il quadro di riferimento rimanga sostanzialmente immutato, Zimmerman ritiene opportuno rivalutare alcuni recentiores2 utili a restituire la facies ormai oscurata di F. Questa conclusione raccoglie i risultati delle ricerche avviate sulla tradizione apuleiana da Pecere: alla fine degli anni Ottanta lo studioso teorizzò l'esistenza di un ramo della tradizione indipendente da F, individuandone i testimoni nei mss. appartenenti a quella che Robertson denomina "classe 1": in primo luogo A (Ambrosianus, del XIV sec.). L'ipotesi di Pecere – pur non trovando conferma nelle successive verifiche compiute da Magnaldi e Piccioni (il ms. sembra dipendere da F) – ha tuttavia stimolato una rivalutazione di A e della sua famiglia. Questi codici, infatti, copiati da F quando il ms. era ancora integro, sono particolarmente importanti per ricostruirne la facies originaria. La valorizzazione della classe 1, non recepita dalla recente edizione di Martos, è tenuta in grande considerazione da Zimmerman e influisce su non poche scelte editoriali: anche altri esemplari della stessa classe, come U (ms. della fine del XIV sec.) e l'editio princeps di de Buxis (1469), accuratamente esaminati e collazionati dalla studiosa, trovano uno spazio adeguato nel suo apparato. Nella stessa logica di rivalutare i recentiores rientra l'attenzione di Zimmerman per la Iuntina di Philomathes (1522), considerata una fonte attendibile per ricostruire F. Dunque, a differenza di Martos, che ripone grande fiducia nel testo di F,3 Zimmerman guarda "with healthy distrust" al codice – più antico, sì, ma spesso poco leggibile – e cerca di recuperarne la fisionomia originaria con l'aiuto di "buoni" manoscritti recenti. Ne consegue anche un diverso approccio all'ortografia, che nell'edizione spagnola conserva la disomogeneità di F; per contro Zimmerman – che dedica al problema molte pagine della prefazione – affronta la fatica di valutare caso per caso, approdando a un giusto equilibrio tra l'esigenza di uniformità e l'usus apuleiano: com'è noto, l'ortografia è anche un tratto di stile e certe oscillazioni – in Apuleio specialmente – possono essere legate alla sensibilità per il suono o al gusto arcaizzante. Il meditato ridimensionamento di F, che induce Zimmerman ad allontanarsi, in diversi casi, dal testo proposto nella serie dei GCA (basato su Helm, e quindi tendenzialmente fedele a F) produce, a mio avviso, due conseguenze rilevanti sulla costituzione del testo: la prima, già accennata, è la preferenza accordata ad alcuni recentiores, là dove F presenta lezioni problematiche o anche solo discutibili. Per chiarire, basterà qualche esempio: 2,12,4 Helm, Robertson, come pure GCA 2001 e Martos conservano nuptiarum di F, a fronte di nuptialis di φ, e di nuptiales, correzione della seconda mano di F già stampata Hildebrandt, che ne ravvisava la presenza nelle antiche edizioni; per Zimmerman la testimonianza di A e di U fa pendere la bilancia a favore di nuptiales. 3,19,5 il testo di F nec ipsa tu videare rerum rudis è conservato da Helm e da Martos, mentre Robertson, ritenendo necessaria una determinazione per rerum, integra rerum <istarum>; procedendo nella stessa direzione Zimmerman recupera talium di U. 8,10,1 a fronte di linguae satiati di F, Z. stampa linguae sauciantis; si allontana così dalle correzioni dei precendenti editori (lingua satianti di Robertson, linguae satiantis di Colvius, recepito da GCA 1985 e da Martos; lingua aestuanti di Helm) per recuperare una lezione di U già accolta nelle edizioni umanistiche (de Buxis, Philomathes), documentando il valore "psicologico" di saucio (le proposte di Trasillo "feriscono" l'animo di Carite, come già intendeva Beroaldo), sulla base di Plauto (Bacch. 64 e 213). Il secondo aspetto è la tendenza a ricondurre a F il genere di errori dovuti a quella che Zimmerman definisce "monastic corruption": ad esempio i residui dei tentativi di autocorrezione del copista – non è un caso che le proposte formulate da Magnaldi sulla base della teoria delle "parole segnale" ricevano buona accoglienza da parte di Zimmerman4 –e soprattutto le glosse intrusive. Sarà opportuno menzionare ancora qualche passo: 5,5,1 praeter oculos et manibus et auribus {ius nihil} sentiebatur. La paradosi oscilla tra F ius nichil sentiebatur e φ his nihil sentiebatur, che non danno senso; numerose le congetture, alcune delle quali richiamate in apparato (<ut praesent>ius nihil di Robertson, facil< ius> nihil di Martos e <e > ius nihil <non> sentiebatur di Watt, ripresa da GCA 2004). Zimmerman torna alla soluzione di Helm, che interpreta ius nihil come corruzione della glossa hd nihil = hic deest nihil. 8,16,6 nequiquam frustra è la lezione di F conservata da Helm e difesa da GCA 1995, 156 come pleonasmo stilisticamente funzionale; Zimmerman espunge frustra sulla scia di Brantz, rilevando inoltre l'assenza dell'avverbio in A.5 Ci sono però alcuni casi in cui l'espunzione di un'ipotetica glossa intrusiva non pare del tutto convincente: 2,7,2 viscum fartim concisum et pulpam frustatim consectam {ambacu pascuae iurulenta}; la stessa sequenza è espunta da Helm che la intrepreta come una glossa al precedente tuccetum: per Zimmerman si riferisce invece a viscum… consectam. Numerose le congetture, riepilogate nel commento groningense (GCA 2001, 146) che alla fine appone le cruces ad ambacu pascuae, come già Robertson. Sembra strano in effetti che la glossa impieghi un aggettivo relativamente raro come iurulentus, ben documentato in Apuleio; a me pare che si possa salvare anche ambo (viscum e pulpa saranno entrambi ingredienti per un ripieno, da cui iurulenta); rimane però indecifrabile cu pascuae. Troppo macchinosi risultano sia pascuae di Colin (riportato in apparato: "par la pature servile") sia compascue di Saumaise e Frassinetti (ripreso da Martos) per cui l'avverbio – un hapax derivato dal tecnicismo agricolo compascuus ("che divide lo stesso pascolo" in Apul. met. 1,1,4, dove il referente è un cavallo) – si adatterebbe al contesto solo presupponendo un' ardita metafora: difficile tradurlo. 6 Perché dunque non mettere le cruces (†cu pascuae†)? 4,8,5 semiferis Lapithis {tebcinibus Centauris}que similia: a fronte di F semiferis Lapithis tebcinibus Centaurisque, Zimmerman espunge tebcinibus Centauris sulla scia di Dowden, che considera la sequenza una glossa intrusiva (Centauris spiegherebbe semiferis, mentre tebcinibus, come da apparato, sarebbe una corruzione di Thebanis); il passo verrebbe tradotto "simili in tutto agli esseri semiferini e ai Lapiti". La soluzione presuppone che semiferis, sostantivato, sia posto sullo stesso livello di Lapithis e indichi i Centauri (da cui la necessità di glossare). La correzione, indubbiamente economica, ha lo svantaggio di mettere sullo stesso piano un composto nominale e un etnico. C'è da chiedersi se una simile inconcinnitas sia in linea con lo stile apuleiano, incline, piuttosto, al parallelismo. Anche la sostantivazione di semifer, pur avvalorata da precedenti ovidiani, risulta troppo dura. Quella di Dowden non mi pare dunque più probabile delle altre soluzioni elencate nel commento di Hijmans (GCA 1977, 71s.), che stampa un poco convincente semiferis Lapithis <ti>tuban< t>ibus Centaurisque. Credo che i casi più probabili siano due: 1) la corruttela potrebbe essere determinata da un disturbo dell'ordo verborum (da qui la separazione di semiferis da Centauris) come sospetta probabilmente Nicolini 2005, che appone le cruces all'intera sequenza; 2) la corruttela potrebbe essere limitata a tebcinibus, che celerebbe un epiteto per noi perduto, originariamente posposto a Centaurisque, mentre semiferis potrebbe essere salvato con il valore traslato di "selvaggi, feroci":7 in questo caso sarebbe sulla via giusta Robertson: semiferis Lapithis {tebcinibus} Centaurisque <semihominibus>. Ma, se l'antimetabole non convince, si possono apporre le cruces a tebcinibus (così Martos 2003). In generale, la riluttanza alle cruces mi sembra una costante, nella vicenda editoriale delle Metamorfosi in età contemporanea, su cui vale la pena di spendere qualche parola. Si sa che il ricorso alla crux dovrebbe essere rigorosamente limitato ai casi in cui si ha la certezza – non il semplice sospetto – che il testo sia corrotto,8 ma non direi che nelle Metamorfosi questi casi siano del tutto assenti. Forse (al di là dei singoli problemi) il fatto che il romanzo riscuota l'interesse di un pubblico ampio di non specialisti, a cui si desidera offrire un testo privo di discontinuità, esercita un'influenza su cui bisognerebbe riflettere. Aspetti indubbiamente apprezzabili sono poi la scelta, di carattere pratico, di conservare la paragrafazione di Robertson-Vallette, come pure la cura dedicata all'interpunzione. La punteggiatura, più frequente e precisa che nelle precedenti edizioni, non solo agevola l'orientamento nella complessa sintassi apuleiana, ma in qualche caso offre economiche soluzioni per i problemi esegetici: tra gli esempi possibili, 3,2,5 tamen pererratis plateis omnibus, et in modum eorum qui {lustralibus piamentis} minas portentorum hostiis circumforaneis expiant circumductus angulatim forum, adusque tribunal adstituor; qui Zimmerman accoglie la proposta di Conte di collocare una virgola dopo forum (Helm la colloca prima, Robertson e Martos la omettono); accorgimento che, assieme ad altri minimi interventi (la scelta della lezione qui di v per quibus di F; la correzione adusque per eiusque), risolve l'impasse sintattica.9 Qualche ambiguità è invece creata proprio dall'interpunzione in 1,25,2 demonstro seniculum – in angulo sedebat – quem confestim pro aedilitatis imperio voce asperrima increpans, 'iam iam' inquit…. Mi pare che il tratto lungo, già in Hanson, oscuri (almeno per il lettore non anglosassone) il nesso relativo, evidenziato invece dalla punteggiatura comunemente adottata (Demonstro seniculum: in angulo sedebat. Quem…). Una nuova edizione suscita inevitabilmente nuove riflessioni, ma in definitiva quello che Zimmerman ci consegna è un testo sostenuto da un'idea della tradizione aggiornata e condivisibile (di fatto largamente condivisa); un testo pulito, agevole e bibliograficamente ineccepibile: senz'altro le Metamorfosi che leggeremo nei prossimi anni.
Notes:
1. E.g. Conte (2,32,1), Ammannati (2,13,5), Panayotakis (6,18,6).
2. Cf. M. Zimmerman 'Age and Merit: the Importance of Recentiores and Incunabula for the Text of Apuleius' Metamorphoses', Segno e testo 9, 2001, 131-163.
3. Sul carattere conservativo dell'edizione cf. Hunink BMCR 2004.12.14, Kenney, CR 55.1, 2005, 149-152; Zimmerman, AN 4, 2005, 213; Harrison, Gnomon 78, 2006, 227.
4. Le proposte di Magnaldi sono messe a testo, ad es., in 2,25,2; 4,31,5; 8,1,5; 9,30,6.
5. Per nequiquam spiegato con frustra, cf. Paul. Fest. 160,12 L.
6. Elusivo Martos: "preparadas los dos con la misma salsa".
7. Cf. Forcellini IV 300 e OLD 1730b; per la ferocia dei Lapiti cf. Verg. Aen. 7,304 con Fordyce, Oxford 1977, 118.
8. Cf. E. Degani, 'Il nuovo Fozio e la crux desperationis', Eclás 1984, 113.
9. Forse meno indipensabile l'espunzione di lustralibus piamentis come glossa di hostiis circumforaneis: il relativamente raro piamentum (glossato da Festo 233,10s. L.) difficilmente spiegherà il comune hostia; Lustralibus piamentis significherà "durante i riti di purificazione". Per snellire il periodo, si può interpungere dopo et e prima di circumductus.
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