Wednesday, November 17, 2010

2010.11.27

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Alan Kim, Platon in Germany: Kant - Natorp - Heidegger. International Plato studies 27. Sankt Augustin: Academia Verlag, 2010. Pp. 312. ISBN 9783896654946. €59.00.

Reviewed by Franco Trabattoni, Università degli Studi di Milano (I)

Table of Contents

L'intento del libro è ricostruire, a partire da Kant, le interpretazioni del platonismo offerte da alcuni tra i maggiori filosofi del '900, ossia Natorp e Heidegger (con importanti riferimenti a Husserl).

Kant conosceva Platone solo di seconda mano. Tuttavia esistono nel suo pensiero alcuni elementi importanti in vista di un ripensamento "teoretico" del platonismo. Già nella Dissertazione del 1770 Kant sosteneva la fondamentale asimmetria delle facoltà conoscitive umane: l'intuizione è immediata, ma passiva; mentre l'intelletto è spontaneo, ma simbolico. Questo significa che la nozione "platonica" di una perfezione ideale non diventa mai l'espressione di un oggetto effettivamente intuito, ma rimane un concetto limite che giustifica la nostra capacità di operare delle valutazioni di grado. Il che implica che "the ideals are only known to us symbolically in a special way, namely through the fact that we determine grades of better and worse" (p. 31). Il nodo che abbiamo ora enunciato costituisce il filo conduttore di tutta la storia raccontata da Kim.

Nel secondo capitolo l'autore mette in luce come alcune tematiche proprie degli idealisti abbiano influenzato le novità introdotte, in rapporto da Kant, dai neokantiani (ma per brevità sorvoleremo). Dopodiché il discorso si appunta su Natorp. Questi è d'accordo con Kant nel dire che le realtà oggettiva non è semplicemente data, ma è un compito da eseguire (82). Infatti prima dell'intervento della ragione che pone le leggi, la realtà che ne costituirà l'oggetto è assolutamente indeterminata, cosicché "there can be no question of any being or thing giving itself to us" (p. 85). Di conseguenza "ontology, the science of being qua being, is resolved into a logic of judgement" (ibidem). In secondo luogo, Natorp riqualifica in un modo particolare il rapporto tra soggetto e oggetto. La soggettività non sta infatti dalla parte della legge, che è oggettivamente, ma è posta a carico dello scarto che esiste tra una determinazione più o meno completa. Tutto questo ha a che fare con Platone, secondo Cohen e Natorp, nella misura in cui il filosofo ateniese "signifies the organizing principle of science as a historically unfolding, living entreprise" (p. 96). Questo importantissimo ruolo svolto da Platone nella storia della filosofia è stato ignorato per secoli: fino a quando, come è chiaro, non è stato riscoperto dai marburghesi stessi (p. 97).

Natorp Kim rigetta a carico della poesia e della metafora tutto quanto potrebbe confermare la tradizionale immagine di un Platone realista e metafisico in senso forte (pp. 99-100). Emblematiche sono le trattazioni natorpiane del Fedro (pp. 100-104) e del Fedone (pp. 114-133): non solo essi vengono depurati da temi come l'immortalità dell'anima, il dualismo sensibile-intelligibile, la dottrina secondo cui le idee esistono come oggetti nell'iperuranio, ecc.; ma vengono anche ridotti a trattati di espistemologia, come se questa particolare coloritura rappresentasse tutto quello che Platone voleva dire scrivendoli: per Natorp il tema portante di questi dialoghi è la dialettica, in tutte le sue articolazioni (p. 102).

L'unilateralità dell'approccio di Natorp non gli impedisce di proporre talvolta analisi testuali penetranti; e ciò dipende dal fatto che il neokantiano si accosta alla dottrina platonica delle idee sulla base di un presupposto, a mio parere, esatto: dal punto di vista umano le idee non sono l'essere o l'ente intuito dall'intelletto, ma sono piuttosto dei postulati che devono essere posti per rendere comprensibile l'esperienza. Così, commentando il Teeteto, Natorp osserva correttamente che per Platone "the meaning of knowledge...is not knowledge of pure forms as such, but knowledge through pure forms" (p. 108). Ugualmente corretta è l'idea secondo cui la conoscenza tramite le idee ha carattere relazionale (v. ad es. pp. 112, 118). Per chiarire questo punto Natorp ricostruisce in modo adeguato la natura del pensiero così come è esposta nel Teeteto, ossia come una attività dinamica che si sviluppa mediante un dialogo interiore, in cui il logos "passa attraverso", soffermandosi temporaneamente nei punti in cui si sviluppano delle doxai, ossia opinioni (p. 113).

I pregi e difetti della posizione di Natorp sono evidenti nella sua analisi del Fedone. Secondo Natorp in questo dialogo il termine idea significa anzitutto metodo (p. 114). L'idea non è un ente che esiste di per sé, ma qualcosa che diviene tale solo attraverso il logos che ne fornisce una giustificazione (p. 118). Tuttavia l'autore giustamente si chiede come è possibile che le idee, ridotte a procedimento logico, conservino la loro determinatezza, che ha carattere statico. Secondo Kim Natorp opererebbe una perversa semplificazione delle intenzioni di Platone: "If anything, Plato means that to ison is not merely a unit but also a standard that lies beyond experience" (p. 120).

Sarebbe riduttivo considerare la posizione di Natorp semplicemente erronea. Natorp ha ragione nel ribaltare l'immagine tradizionalmente metafisica di Platone, sostenendo che le leggi a priori che governano i fenomeni derivano dalla considerazione delle condizioni di possibilità che l'esperienza necessariamente richiede (p. 132; cfr. anche p. 137). Ma ha torto nel ritenere che per Platone esse derivino dalla mente (p. 125). Se derivassero dalla mente, per Platone sarebbero semplicemente soggettive, e non potrebbero funzionare come leggi a priori.

Il difetto della posizione di Natorp deriva da quella fondamentale this-worldliness che con ragione l'A. attribuisce congiuntamente a Natorp e Heidegger (p. 285. In realtà per Platone non solo la trascendenza metafisica dell'idea come oggetto e la sua immanenza come metodo non si escludono: addirittura si implicano a vicenda. Le idee possono essere intese come leggi e metodi per comprendere e spiegare l'esperienza se e solo se sono, prima del loro impiego metodico, dei modelli assoluti che esistono al di là dell'esperienza. Dunque il tentativo natorpiano di isolare in Platone un'epistemologia fruttuosada un dualismo metafisico imbarazzante, è destinato a fallire, perché il secondo è per Platone l'indispensabile fondamento della prima.

Il "platonismo" di Husserl è molto più implicito di quello di Natorp. Husserl condivide con il neokantiano l'orientamento trascendentale che consiste nel rintracciare i principi a priori che governano l'esperienza. Ma gli esiti a cui pervengono i due filosofi sono opposti. Mentre per Natorp i principi a priori sono oggettivanti e non oggettivabili, per Husserl compito della filosofia è la conoscenza delle cose stesse. In tal senso Husserl fa perno sull'intuizione eidetica intesa come funzione capace di dischiudere alla conoscenza "a domain of absolute knowledge, distinct from that of the natural or the human sciences, the so-called realm of essences" (p. 152). La fenomenologia, infatti, è contemplazione di essenze (p. 154), ed è chiaro che questa operazione (o Wesenschau) "would have struck a (neo-) kantian as odious" (p. 164). Ma se la base di ogni conoscenza è l'intuizione, bisogna anche ammettere che "insight or sense-reading intuition is also needed in advance of a discursive process" (p. 165). E questa tesi sembra essere direttamente opposta al principio ermeneutico che Natorp ricavava da Platone, secondo cui pensiero, logos e conoscenza hanno carattere relazionale.

Abbiamo così raggiunto una situazione singolare. Tanto Natorp che Husserl sembrano avere buoni motivi per richiamasi a Platone, dal momento che in questo autore la conoscenza è descritta in tempi sialterni sia come intuizione pura sia come attività discorsiva, dialettica e relazionale. L'unica soluzione possibile, a mio avviso, è quella che già abbiamo proposto sopra. La conoscenza intuitiva è considerata da Platone come una sorta di condizione trascendentale di quella discorsiva, che è poi l'unica di qui l'uomo realmente dispone. Questa situazione strutturalmente asimmetrica è espressa da Platone mediante la dottrina metafisica della reminiscenza.

La trascuratezza di questa dimensione metafisica (comune a Natorp, Husserl e Heidegger) finisce per istituire una netta linea di demarcazione tra Natorp e Husserl sul terreno dell'ontologia. Un intuizionismo eidetico non corretto dal dualismo metafisico, come è quello di Husserl, ha come sua necessaria conseguenza una nozione di verità di carattere "noematico", ossia intesa come proprietà della cosa stessa (p. 168). Mentre infatti i neokantiani negano che l'essere possa essere inteso come presenza (p. 183), e in particolare per Natorp l'essere altro non è che la copula che si esprime nel giudizio (v. ad es. p. 178), per Husserl gli eide sono considerati come delle cose, non come leggi o metodi (p. 177. Perciò, mentre "Natorp entirely abolishes the question of being" (p. 183), l'ontologia rimane al centro della riflessione di Husserl. Ma in termini di esegesi platonica tutto questo, a mio parere, non è altro che un equivoco. La nozione "noematica" di verità non è platonica, poiché per Platone, alla luce della dottrina della reminiscenza, l'essere che si dà nell'intuizione non è "presente", ma al contrario è "assente". La stessa dottrina della reminiscenza, per conversio, esclude che questa assenza possa intesa nel senso che l'essere o l'ente non esistano in quanto tali, e possano dunque essere ridotti alla copula, al giudizio, alla legge o al metodo (come vorrebbe Natorp). Natorp ed Husserl, dunque, pongono l'accento su due aspetti del pensiero di Platone effettivamente esistenti; ma finiscono poi per scodellare due platonismi antitetici, in quanto nessuno dei due prende in considerazione il nesso (la dottrina della reminiscenza e il dualismo metafisico ad essa inerente) che in Platone li tiene insieme in modo armonico.

Sorvoleremo, per brevità, sul cap. 6, e concluderemo il nostro discorso con Heidegger. Anche in Heidegger il presupposto antimetafisico (la this-wordliness) svolge un ruolo decisivo per spiegare la sua comprensione (e incomprensione) di Platone. Dal corso sul Sofista risulta che Heidegger ha in qualche modo equiparato le nozioni di logos e nous: la natura dell'eidos, o dell'idea, è infatti quella di denotare nel modo più chiaro l'articolazione delle cose in un logos (p. 261), dove il logos svolge la funzione di mediare l'intuizione pura (p. 258). Ciò tuttavia non risolve il problema di capire se Heidegger ammettesse o no in Platone l'esistenza di una pura intuizione intellettuale anteriore al logos. Nel corso sul Sofista non si trova una chiara determinazione della faccenda (p. 262). Infatti Heidegger da un lato sembra insistere sulla necessità del nesso, dall'altro pare anche ammettere l'ipotesi che un puro noein sia possibile (p. 261, GA 19, p. 179). Secondo Kim il problema si risolve ipotizzando che per Heidegger un supposto nous senza logos non rappresenti, come per Aristotele (dice Kim) una elevazione della mente, ma un fallimento del Dasein nell'esplorazione delle sue possibilità più essenziali (p. 262). Ma a mio avviso la spiegazione è un'altra. L'incertezza di Heidegger nello stabilire se Platone ammetteva solo un pensiero dianoetico, oppure concedeva anche l'esistenza di un'intuizione pura, è del tutto giustificata. Ma la sua idiosincratica this-wordliness gli impediva di vedere come questi due dati si conciliano: l'intuizione pura è attiva nell'anima disincarnata, il pensiero dianoetico nell'anima partecipe di un corpo.

Identico discorso di può fare a proposito delle critiche che Heidegger ha rivolto a Platone nello scritto La dottrina platonica della verità. Platone è qui accusato di aver aperto ma poi subito occultato il significato di verità come svelatezza, trasformandola in corrispondenza e correttezza dello sguardo. Kim ha buone ragioni per notare che questa critica heideggeriana è unfair. E per fare questo contrappone al platonismo criticato da Heidegger un ben diverso platonismo, di stampo apparentemente gadameriano, che a suo avviso Heidegger non poteva ignorare. E' il platonismo in cui lo sguardo è sempre limitato dal logos, ed il logos è limitato a sua volta dalla finitezza dell'esperienza umana; in cui, come si legge in un passo del Fedone, la conoscenza piena e completa si consegue solo nell'Ade; in cui la filosofia, sempre ai sensi del Fedone, deve necessariamente rifugiarsi nei logoi; in cui, infine, "the revelatory power of truth is forever subject to a temporal horizon and to an endless hermeneutic" (p. 283). Secondo Kim Heidegger conosceva questo Platone, ma, all'inverso degli uditori presuntuosi di Socrate, ha preteso di non sapere quello che sapeva (p. 284). In realtà Heidegger sapeva che esiste anche l'altro Platone, quello dell'intuizione intellettuale intenzionalmente rivolta all'ente/eidos. Ma, ancora una volta, la sua this-wordliness gli impedito di vedere come questi due Platone si accordano.

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