Robert C. Ketterer, Ancient Rome in Early Opera. Urbana/Chicago: University of Illinois Press, 2009. Pp. xi, 253. ISBN 9780252033780. $40.00.
Reviewed by Chiara O. Tommasi Moreschini, Università di Pisa
Premettiamo col dire che la scelta di scrivere questa recensione in italiano è motivata da un ideale omaggio alla lingua che nei secoli ha caratterizzato la storia della musica lirica e dell'opera seria in particolare.
Il libro in questione, il cui autore si divide tra gli studi classici, essenzialmente sul teatro antico, e quelli musicali (è, tra l'altro, vice presidente dell'American Händel Society) costituisce una presentazione di una serie di opere in musica aventi come sfondo la romanità. Il mondo antico, tanto con le vicende storiche che con i racconti mitologici, offrì peraltro una facile rispondenza agli intrighi e alle trame complesse che fin dagli albori caratterizzarono l'opera lirica. A questo proposito salutiamo con piacere un altro libro e un'altra recensione con analoghe caratteristiche, Michael Ewans, Opera from the Greek: Studies in the Poetics of Appropriation. Aldershot/Burlington, VT 2007, BMCR 2009.06.32.
La ricerca di Ketterer è incentrata soprattutto sui libretti e sulle sue fonti, benché non manchi, qua e là, qualche esempio musicale che meglio serve a sottolineare determinati snodi e passaggi contenutistici. Peraltro, va ricordato che spesso il medesimo libretto veniva riutilizzato, talvolta con adattamenti e poche variazioni, da più autori. In maniera assai opportuna, le opere prese in esame sono divise per temi (il trionfo dell'amore, il locus amoenus, la clementia principis, il problema dell'imperialismo e dei popoli conquistati da Roma) e raggruppate in base al loro contenuto.
Dati i contenuti del volume, borderline tra cultura classica e musicale, e dato il target dei potenziali lettori, ossia--supponiamo--persone che coltivano come violon d'Ingres o il mondo classico o la storia della musica, è naturale che Ketterer richiami in maniera piuttosto generale episodi assai noti della storia romana o faccia riferimento basandosi su testi manualistici a clichés--si spera--ben assodati presso i cultori della classicità (p. es. Livio, 'storico pompeiano' di p. 4), come anche a snodi essenziali nella storia del teatro musicale. La lettura è comunque piacevole e il libro è solidamente impostato. Numerosi sono i testi dei libretti citati e commentati (e corredati da traduzione inglese), alcuni dei quali inediti per il mondo anglosassone.
Come ulteriore dettaglio positivo, segnaliamo la pregevole qualità della stampa, la presenza di illustrazioni e il costo assai ragionevole.
Scopo dell'autore è quello di dimostrare come i numerosi 'drammi per musica' con temi tratti dalla storia romana avessero la funzione di veicolare aspetti particolari del mondo antico, il quale veniva a trovarsi, da un lato, fissato nella sua algida lontananza e con figure animate da nobili ideali o da passioni estreme, dall'altro si trovava ad essere reso più attraente per gli ascoltatori contemporanei, non di rado a prezzo di licenze alla verità storica. Tali licenze non devono meravigliare e non devono destare il sussiegoso disprezzo che ancor oggi aleggia nei confronti di certe opere artistiche destinate più all'intrattenimento o alla popolarità--si pensi, mutatis mutandis alle opere cinematografiche o a una serie televisiva di largo successo come Rome. Tanto le une quanto le altre dietro agli aspetti di più largo consumo non di rado celano attento lavoro editoriale e consapevolezza degli aspetti che a bella posta vengono alterati (per il cinema cfr. ora l'articolo di D. Campanile, "Film storici e critici troppo critici", SCO 52, in corso di stampa).
Passando più dettagliatamente ai contenuti, dopo una presentazione degli obiettivi del volume, il secondo capitolo è incentrato sull'Incoronazione di Poppea di Monteverdi, che trae spunto dalla praetexta pseudo-senecana Octavia e dai libri neroniani di Tacito, ma che, conformemente ad una 'regola non scritta' del teatro musicale, particolarmente fino a Mozart, termina con un happy ending alquanto sorprendente per la mentalità attuale, ma non per quella del pubblico coevo alle prime rappresentazioni. Come si vede anche nella maggior parte delle opere esaminate, il finale lieto è una costante, anche a costo di forzature alla storia (eclatante il caso di Arminio, di cui alle pp. 132 sgg., o, in misura minore, del Catone in Utica, pp. 124 sgg., il cui testo, originariamente previsto da Metastasio con un finale tragico, fu modificato in seguito per andare incontro al gusto del pubblico; ma si potrebbe qui ricordare anche la Medea di Francesco Cavalli, che termina con ben due matrimoni, quello di Giasone con Ipsipile e quello di Medea con Egeo!).
Accanto al marcato stoicismo che anima l'opera monteverdiana e che d'altro canto costituiva l'arrière pensée di molto tacitismo cinquecentesco, nel cui ambiente si era formato il librettista Giovanni Francesco Busenello, Ketterer individua nel motivo del 'trionfo dell'amore' che permea l'opera la ripresa di temi del neoplatonismo rinascimentale, particolarmente di Marsilio Ficino. L'interpretazione è abbastanza interessante e nuova, anche se, personalmente, tenderemmo a sfumarla un po' di più (su Poppea e il mondo classico si possono leggere ora considerazioni molto interessanti di Gesine Manuwald: cfr. "Der Stoiker Seneca in Monteverdis L'incoronazione di Poppea", in: T. Baier / G. Manuwald / B. Zimmermann (hrsg.), Seneca: philosophus et magister, Freiburg 2005, 149-185; "Nero and Octavia in baroque opera: their fate in Monteverdi's Poppea and Keiser's Octavia", Ramus 34.2, 2005, 152-166).
Trattandosi di opere destinate allo svago e al divertimento, è chiaro come il tema amoroso e l'intrigo che porta al ricongiungimento finale dei due amanti siano prevalenti nella maggior parte di esse, benché, accanto ad esso, agiscano anche motivi. Ad esempio il personaggio di Otone, già adombrato come tale in Monteverdi, diviene il prototipo del giovane amante sia nell'Otone in villa di Vivaldi che nell'Agrippina di Händel (cap. 3): in tal modo, del noto ritratto tacitiano è mantenuto solo l'aspetto lascivo, sia pure depauperato delle componenti maggiormente negative e, accanto ad esso, agisce un influsso della letteratura elegiaca (rivivificata a partire dalla fine del Cinquecento grazie agli innesti arcadico-pastorali), grazie, ancora una volta, alla presenza di più eroine femminili.
Più complessi, invece, i temi che fanno da sfondo alle riproposizioni di una storia favorita da artisti di ogni tempo, vale a dire quella degli amori di Sofonisba, Massinissa e Siface (Livio, 30). Ketterer ne discute al cap. 4, prendendo in esame lo Scipione Affricano di Francesco Cavalli, e rintracciandovi influenze della produzione ovidiana, soprattutto nel modo in cui è tratteggiata la protagonista.
La presenza di altri motivi oltre a quelli della vicenda amorosa si può invece osservare in un gruppo di opere legate inoltre dal filo conduttore dell'eroismo e della virtù, e precisamente quelle che hanno come sfondo la vicenda della continenza di Scipione in Spagna (Livio, 26,50; Polibio, 10,19) e quelle, ancor più famose, che celebrano la clemenza del buon sovrano, con l'exemplum di Tito (capitoli 4 [in parte], 5 e 8, rispettivamente). A parte l'elogio delle donne virtuose e fedeli sino all'eroismo, le varie opere qui discusse presentano molte somiglianze, in quanto tendono a mettere in evidenza come un condottiero o un re debbano perseguire in tutto e per tutto la felicità dei propri sudditi, anche a costo di rinunziare ai loro interessi o capricci personali. Scipione, in particolare, è, ancora una volta rappresentato come il modello stoico dell'eroe. È chiara quindi la componente panegiristico-laudativa che emerge da una lettura in filigrana di questi drammi, non a caso spesso rappresentati per la prima volta in occasione dell'ascesa al trono di un sovrano. Si aggiunga tuttavia che è caratteristica degli specula principis fin dal modello del De Clementia di Seneca o dei discorsi di elogio dei retori della Seconda Sofistica, di far intravvedere, accanto al panegirico, anche un velato monito al governante di non allontanarsi dalle caratteristiche ideali appunto tratteggiate in tali specula.
Parimenti, il motivo encomiastico si manifesta in misura ancor più evidente in altre opere, come il Giulio Cesare di Händel, di cui si discute al capitolo 6. Come si può agevolmente vedere, il personaggio di Cesare è raffigurato da parte di librettisti e compositori secondo una duplice ottica, potente trionfatore e condottiero eroico, ma clemente. Non manca, naturalmente, la storia d'amore con Cleopatra. La duplicità di interpretazione cui si presta un personaggio complesso come Cesare (ossia, schematicamente, sovrano o tiranno) emerge tuttavia in opere come il Catone in Utica (di Vivaldi) o La prosperità infelice di Giulio Cesare dittatore (di Monteverdi), le quali sono, anche in questo caso, animate da tendenze stoicheggianti e, in parte anticiperanno, certe letture successive del personaggio di Catone Uticense (da parte di Addison o di Alfieri, per i quali giustamente Ketterer rintraccia un antecedente nella figura del Catone dantesco del primo canto del Purgatorio).
Il problema di Roma e delle conquiste tra tarda repubblica e Impero è affrontato anche in un capitolo dedicato, per così dire, all'ottica dei vinti, ove si esaminano il motivo di Arminio e della resistenza dei Germani (cap. 7). Anche in questo caso ci troviamo davanti ad opere a lieto fine, visto che Arminio, reso fedele ai Romani, può sposare la giovane di cui è innamorato, pronuba Agrippina in persona! Come nella maggior parte dei testi scritti con funzione laudativa, è evidente che il finale ha chiari intenti 'pedagogici', ossia intende dimostrare che la dominazione romana costituiva una sorta di benedizione per tutti i popoli dell'orbe. Tuttavia, trattandosi di opere nate per il divertimento del pubblico e (in qualche circostanza) per la celebrazione dei regnanti, non solo pare obbligato il lieto fine, ma sarebbe fuori luogo anche qualunque riflessione sugli arcana imperii o sul problema delle conquiste che Tacito aveva fatto nella sua opera, utilizzata come base dai librettisti.
Ciò vale a maggior ragione per quelle opere che, anche musicalmente, enfatizzavano la componente imperialista e trionfatrice, le quali non devono essere per questo considerate in maniera negativa o, peggio, ritenute un modo velato di far satira. Lo osserva, del resto, assai sensatamente, Ketterer a p. 114, con considerazioni dettate forse da scrupoli eccessivi e caveats imposti da un eccesso di correttezza politica.
Al tempo stesso, condividiamo pienamente le vivaci osservazioni finali a proposito delle rappresentazioni moderne e delle stravaganze di alcuni registi circa il modo di mettere in scena opere dal forte significato trionfalistico come appunto il Giulio Cesare, o anche il Lucio Silla di Mozart, un malcostume purtroppo sempre più diffuso, che nasce sia dalla mancanza di idee originali, sia da un desiderio, ormai datato e dunque sterile, di épater le bourgeois (chi scrive ha assistito a una Semiramide di Rossini in cui Assur sniffava cocaina, ma sono ben noti i vari casi di Norma ambientata tra i Nazisti, Faust in cui Margherita uccide il bambino nella lavatrice, fino al recente Idomeneo di Berlino in cui venivano decapitati i simboli delle religioni, Buddha, Cristo e Maometto--differente invece l'operazione di Carmine Gallone, tanto per fare un solo esempio, nel film Avanti a lui tremava tutta Roma http://www.imdb.com/title/tt0038443/, che contamina in maniera intelligente Tosca e l'atmosfera in stile Roma città aperta).
Conformemente ad una tendenza ormai diffusa, e, direi, naturale data la provenienza dell'autore, la letteratura secondaria è costituita soprattutto da lavori in lingua inglese--e del resto gli Stati Uniti possiedono eccellenti centri di ricerca sull'opera e, più in generale sugli studi italianistici. A questi avremmo però aggiunto volentieri studi di autori italiani che nel corso del ventesimo secolo hanno contribuito a far riemergere dall'oblio un genere letterario considerato minore, come il libretto d'opera, e a donare piena dignità letteraria a questi scrittori, primo tra tutti Metastasio. Ci riferiamo, tra gli altri, a Luigi Baldacci, Giovanna Gronda, Daniela Goldin. Sorprende anche la mancanza di un libro come quello di Danielle Porte, su L'inspiration antique dans l'opéra, Paris 1987, o del lungo articolo di Giovanni Morelli, "Il 'classico' in musica, dal dramma al frammento", in S. Settis--D. Lanza (edd.), I Greci, III, I Greci oltre la Grecia, Torino 2001, pp. 1175-2044; ma soprattutto, nella prospettiva di un classicista, gli studi scritti in una prosa vivace e pieni di spunti originali di Cesare Questa, che è maestro riconosciuto dei rapporti tra cultura classica e libretti d'opera e che ha scritto pagine illuminanti sia sulla Poppea di Monteverdi, anticipando la presenza del tema dell'omnia vincit amor, sia sulla Clemenza di Mozart (cfr. ad es. I Romani sulla scena operistica, in L'aquila a due teste. Immagini di Roma e dei Romani, Urbino 1998).
In ogni caso questi rilievi non inficiano la qualità generale del volume, che si legge piacevolmente e che è assai utile per mostrare quanto polimorfa possa essere la fortuna degli autori classici. Ketterer ha messo in giusto rilievo la trasformazione delle vicende della storia romana, dimostrando come tale trasformazione abbia potuto attingere linfa dalle tendenze culturali dell'epoca in cui le opere furono composte.
L'autrice della presente recensione, che per talento e gusto personale inclina di più verso l'opera dal Settecento in avanti (e più precisamente da Mozart in poi), manifesta solo il desideratum di non aver potuto leggere pagine su un capolavoro assoluto come la Norma o su altre opere meno note, ma egualmente interessanti e degne di riscoperta, come il Nerone di Boito, la Lucrezia di Respighi, Satyricon di Bruno Maderna (per tacere delle opere 'romane' dello stesso Mozart, Lucio Silla, Il Sogno di Scipione, o la stessa Clemenza); e anche nel periodo preso in considerazione si sarebbero lette volentieri, ad esempio, pagine sul Farnace vivaldiano. Più che una critica, tuttavia, questa conclusione deve leggersi come un auspicio per futuri sviluppi della ricerca.
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