Reyes Bertolín Cebrián, Singing the Dead: A Model for Epic Evolution. New York: Peter Lang, 2006. Pp. 171. ISBN 9780820481654. $62.95.
Reviewed by Massimiliano Di Fazio, max.difazio@gmail.com
Reyes Bertolín Cebrián è una studiosa spagnola; formatasi in parte in patria e in parte in Germania, attualmente lavora in Canada. Il suo libro è costruito attorno alla proposta di un modello di sviluppo dell'epica eroica greca a partire dal lamento funebre. Dopo una introduzione che presenta le linee-guida, il volume è diviso in due parti. Nella prima parte viene presentata e discussa la teoria che è al centro del libro, attraverso un inquadramento del genere-epica, posto a confronto con altri generi letterari contemporanei. Nella seconda parte la prospettiva si allarga ad esaminare il ruolo dell'epica nel contesto sociale e culturale in cui questa si sviluppò. Vediamo ora brevemente un dettaglio dei capitoli che costituiscono il libro.
Il primo capitolo ('In the Beginnig Was the Rite'), uno dei più densi del libro, si apre con una riflessione sull'associazione tra letteratura e eventi sociali nelle epoche antiche, e sull'importanza del prodotto letterario nell'ambito dei rituali. L'autrice passa poi subito a proporre una definizione di rituale (p. 9), presa dalla dissertazione di dottorato di Monika Vizedom del 1963.1 Sarebbe forse stato opportuno rifarsi in maniera più ampia al dibattito scientifico (tanto per fare qualche nome: Stanley Tambiah, Clifford Geertz, Victor Turner, Catherine Bell), che avrebbe permesso ad esempio di prendere in considerazione l'esistenza anche un aspetto non religioso del rito. Ad ogni modo, da queste pagine emerge un punto importante attorno al quale è costruito il modello proposto, ovvero il valore "performativo" della parola e della letteratura, la sua forza "illocutoria", secondo la celebre formula introdotta da J. L. Austin. Secondo Bertolín Cebrián l'epica perde la sua forza illocutoria nel momento in cui viene separata da uno specifico rito. Acutamente l'autrice sottolinea (p. 11) che un testo che nasce in collegamento con un rito, e che dunque aveva in origine una forza illocutoria o performativa, nel momento in cui perde questa forza deve compensare con una maggiore descrittività. Questo, in nuce, è il passaggio dal testo rituale, legato alla commemorazione funebre del defunto, al testo epico, che ha perso il suo legame con il rituale funerario e deve recuperare sostanza attraverso un più ampio e più dettagliato racconto delle gesta del defunto. La commemorazione si trasforma così in racconto; alcuni di questi racconti diventano tradizionali, ed assumono status di mito, di epica. Il primo capitolo prosegue con interessanti osservazioni sul contesto rituale in cui nasce la produzione letteraria in Grecia, grazie al prodursi di una situazione eccezionale di separazione dall'ordinario che caratterizza il momento rituale. In particolare, la produzione letteraria che nasce in questo contesto è l'elegia, legata a occasioni diverse come battaglie, simposi, funerali, festival (p. 22). L'elegia, come già sottolineato da M.L. West, ha in sé un valore illocutorio, e per confermare questo assunto Bertolín Cebrián richiama una serie di esempi tratti dalla letteratura greca, in particolare la produzione di Tirteo; a questi si aggiungono però riferimenti anche da diversi contesti culturali (ma sempre indoeuropei), come la letteratura vedica degli Atharvaveda e quella germanica dei Merseburger Zaubersprüche. E di nuovo viene sottolineato il passaggio dall'elegia all'epica: la perdita dell'aspetto performativo comporta un ampliamento in lunghezza, tipico dell'epica, che non crea azione immediata: 'When there is no future action to justify the words, memory to recall the past is further necessitated' (p. 23). La separazione tra epica e contesto rituale è legata, come spiegato nell'Introduzione, alle migrazioni ioniche, che separarono la popolazione dalle tombe degli antenati: su questo punto l'autrice torna a soffermarsi nei capitoli successivi. Questa riflessione ovviamente presuppone l'originaria coesistenza dei due generi, che effettivamente oggi prevale sull'idea che il genere elegiaco sia posteriore a quello epico.
Il capitolo 2 ('From Funeral Lament to Epic') è dedicato in particolare allo sviluppo che porta dal lamento funebre all'epica: in apertura Bertolín Cebrián riespone la sua idea secondo cui l'epica sarebbe nata dall'esigenza di ricreare il lamento funebre in un contesto lontano dalle tombe degli eroi e degli antenati, il che avrebbe indotto una espansione della parte narrativa. Un punto chiave del capitolo è la definizione del concetto di 'eroe' all'interno di una logica che assegna grande importanza al momento funebre: in quest'ottica, l'eroe sarebbe 'a person to whom the praise or blame is addressed' (p. 34).2 La collocazione della figura dell'eroe in questa ottica è indicata, secondo l'autrice, dall'aspetto che distingue il dio dall'eroe, ovvero che quest'ultimo muore. È a partire dall'undicesimo secolo che si sarebbe avuta la separazione tra antenato reale ed eroe mitico, e di conseguenza la distinzione tra il lamento per l'antenato e la narrazione epica per l'eroe (p. 37). Questo processo, come già accennato, affonderebbe le sue radici nella separazione fisica che avvenne nell'ambito delle colonizzazioni ioniche: a questa separazione l'autrice riconduce anche il revival dei culti eroici che ebbe luogo in Grecia nel corso dell'ottavo secolo, presumibilmente per ragioni politiche. Il capitolo, che è il più lungo del libro, prosegue con una analisi dei generi letterari del lamento funebre, ed in particolare del threnos e del suo legame con l'elegia, di cui è di solito considerato un sottogenere. Uno dei punti centrali di questa analisi è il rapporto tra il threnos ed il goos, visti tradizionalmente il primo come espressione di lamento 'professionale' ed il secondo come lamento 'libero' espresso dai parenti del defunto (p. 50). Bertolín Cebrián propone in queste pagine che l'elegia fosse il componimento poetico messo in atto in occasione dell'agon funerario, e che threnos e goos fossero le sue parti, affidate rispettivamente ai maschi ed alle femmine, con una differenziazione quindi non di professionalità ma di genere: su questo punto l'autrice torna poi nel capitolo 4. Anche in questo capitolo vengono fatti riferimenti ad altre culture, in particolare all'Irlanda medievale (dunque ancora nel solco della tradizione indoeuropea) ma anche alla cultura Zulu dell'Africa meridionale.
Nel capitolo 3 ('Laments and other Genres') l'autrice procede a mettere a confronto il genere epico, quale risulta dalle pagine precedenti, con gli altri generi letterari contemporanei, tra cui i poemi di guerra, i cataloghi, l'epinicio, e soprattutto la tragedia, ovvero l'altro genere che in passato era stato già collegato al lamento funebre (p. 80), ma che a differenza dell'epica è più legata ad idee democratiche. In questo capitolo, come anche nel precedente, Bertolín Cebrián mira a presentare il contesto storico e culturale nel quale l'epica come genere si cristallizza.
Il capitolo 4 ('Women's Funeral Lament') chiude la prima parte del volume. In queste pagine l'autrice riprende alcuni spunti già accennati nei capitoli precedenti, e mette l'accento sul legame tra lamento funebre e sfera femminile da un lato, e tra epica e sfera maschile dall'altro. Propria degli uomini sarebbe stata la celebrazione delle gesta del defunto attraverso una gestualità controllata; propria delle donne invece sarebbe stata l'espressione incontrollata del dolore: questo confronto tra threnos maschile e goos femminile sarebbe al centro dell'agon che si svolgeva per i funerali, e che per alcuni aspetti assomiglia dunque agli agoni in occasione di matrimoni e in ultima analisi alla stessa tragedia. Va detto peraltro che questa prerogativa femminile del lamento è stata recentemente messa in discussione,3 ma il dibattito si può considerare ancora aperto. Piuttosto, un punto che a mio parere andrebbe precisato riguarda proprio la gestualità del dolore. Gli studi sull'iconografia del pianto rituale (in Grecia ma non solo)4 hanno in realtà sottolineato che anche gli atteggiamenti che possono sembrare più scomposti e naturali hanno una loro calcolata ritualità, e sono riconducibili a definite serie e definiti gesti, schemata5 tali da definire una vera e propria 'grammatica del dolore'. Trovo dunque discutibile l'ipotesi espressa riguardo al celebre vaso del Dipylon con scena di prothesis, che secondo Bertolín Cebrián rappresenta l'inizio di una differenziazione tra ruoli maschile e femminile nel lamento funebre, dal momento che alcuni uomini sono raffigurati sul vaso in atteggiamento "femminile" di lamento, mentre altri sono raffigurati virilmente mentre imbracciano armi (p. 98).6 L'uso della documentazione visiva avrebbe potuto essere più ampio ed esauriente, e condurre ad una analisi più articolata anche su un ultimo importante aspetto affrontato in questo capitolo, ovvero il controllo sociale sui riti femminili ad Atene dopo le leggi di Solone. Le osservazioni svolte su questo punto sono interessanti, ma dovrebbero misurarsi con la circostanza per cui, nonostante le norme soloniane, le raffigurazioni di prothesis non vengono meno nell'arte ateniese del sesto e quinto secolo.7
La seconda parte si apre col capitolo 5 ('Epic and Sports'), che sviluppa una analisi comparata dell'epica e dei giochi sportivi in Grecia tra ottavo e sesto secolo, mostrando come entrambi i fenomeni fossero legati alla società contemporanea, ed in particolare alla contrapposizione tra aristocrazie dominanti e classi medie. In questa prospettiva viene individuato l'inizio del processo di testualizzazione e di abbandono della produzione epica. Si tratta, a dir la verità, di un capitolo che rimane piuttosto estraneo nell'ambito del libro.
Il sesto ed ultimo capitolo ('Classical Funeral Orations and the Epic') si apre con l'analisi dell'orazione funeraria ateniese di epoca classica, che secondo diversi studiosi era legata proprio al lamento funebre. Al centro dell'analisi è ovviamente l'orazione di Pericle per i caduti della guerra peloponnesiaca, riportata da Tucidide, vista come 'programmatic for the epic, since these ideas are the foundation of the heroic code of epic' (p. 130). Le orazioni funebri di età classica hanno lo stesso ruolo dell'epica: 'to transmit the values of society and to inspire younger generations to noble deeds' (p. 132). In aggiunta, esse avrebbero avuto una importante funzione di controllo sociale, come mezzo per limitare le pratiche funebri aristocratiche. In quest'ottica si colloca anche il passaggio da una società orale ad una basata sullo scritto, passaggio che in Grecia avrebbe avuto come parallelo quello dalla poesia alla prosa: 'the passive spectator of the funeral speech implies a society that is leaning towards written records more than oral ones' (p. 133). Questo passaggio viene esplicitato proprio nel discorso di Pericle, laddove si dice che gli Ateniesi non hanno bisogno di un Omero che ne canti le virtù (Thuc. 2.41.4): l'epica appartiene al passato. La nuova cultura scritta, peraltro, permette ad un più ampio pubblico di avere un suo 'momento di gloria' funerario. Inoltre, anche se il discorso funebre è legato al rituale del seppellimento, perde ora il suo valore religioso e magico, poiché è al servizio di un rito che ormai ha assunto un valore civico e secolare. Le orazioni di Lisia offrono all'autrice diversi esempi per queste riflessioni. Verso la fine del capitolo, Bertolín Cebrián ritorna sulla questione dell'eroe, sottolineando come gli Ateniesi di età classica, in virtù della loro origine autoctona, non sentissero il bisogno di una divisione tra la figura dell'eroe e quella dell'antenato, divisione legata alla visione aristocratica per cui non tutti gli uomini sono nati uguali. Anche in questo caso, dunque, la prospettiva politica assume il suo peso nell'evoluzione dei generi letterari, e questo è forse l'aspetto più convincente e più riuscito dell'approccio di Bertolín Cebrián.
Tre pagine sono poste a conclusione dell'opera, con l'obiettivo di riassumere il contenuto del libro.
Il volume è infine chiuso da una appendice ('Did the Romans Have an Oral Epic?') in cui l'autrice volge lo sguardo al contesto romano, per verificare se il modello di evoluzione proposto nel volume può essere applicato anche ad altri contesti. Va detto che questa appendice si presenta come una delle parti più deboli dell'opera, e forse sarebbe stato tutto sommato meglio ometterla, dal momento che nulla aggiunge alla validità del ragionamento. Tra le principali debolezze del capitolo, vi è una sottovalutazione della cultura orale nel mondo romano: 'we do not know if the Romans ever had an oral epic' (p. 151). Sarebbe stato utile leggere i lavori di T. P. Wiseman8 per avere un quadro della vitalità della tradizione orale nella Roma pre-quarto secolo. Anche l'idea che nella cultura funeraria romana 'the image takes the role of the word' (p. 156) si presta ad essere discussa, specie dal momento che l'iconografia romana del lutto attinge largamente da modelli elaborati in Grecia.9 Infine, sarebbe stato forse utile coinvolgere nella discussione anche un autore epico rilevante, ancorché ingombrante, come Virgilio.
Dal punto di vista editoriale, l'idea che si ricava dal libro è che sia stato realizzato con una certa fretta. Il testo purtroppo è pieno di refusi, specie nella prima metà. L'indice finale è decisamente scarno e poco utile. Vanno segnalati anche alcuni rimandi bibliografici che mancano nella bibliografia finale (M. Wilson 1957 a p. 29 nota 3; Svenbro 1988 a p. 160). Infine, la stessa bibliografia contiene diverse parole trascritte in maniera errata, soprattutto nei casi di titoli in italiano (ad es. i titoli di Pagliaro e Palmisciano), e non sempre rispetta l'ordine alfabetico (Ford precede Foley).
Il punto di forza del volume è che ha al suo centro un'idea: un'idea fresca, suggestiva, che apre interessanti prospettive di lavoro, e che è sviluppata grazie anche ad una apertura intelligente verso altre discipline come l'antropologia e la semantica, e con il ricorso accorto alla comparazione con altre letterature. Il punto debole sta nel fatto che quest'idea è argomentata non sempre in maniera chiara e consequenziale. L'intera esposizione avrebbe forse potuto essere più sintetica, più essenziale; nel testo infatti si notano diverse ripetizioni, e spesso gli argomenti sono riproposti più volte. Questo non giova alla leggibilità complessiva, e in alcune occasioni il discorso diventa poco lineare. Si aggiunga che l'appendice dedicata al mondo romano avrebbe potuto essere eliminata, senza che il valore del libro ne venisse diminuito. Rimane comunque, a mio parere, un testo che offre spunti e stimoli interessanti: coloro che si occupano di letteratura greca nei suoi aspetti sociali e culturali troveranno certamente nel libro di Bertolín Cebrián diversi utili spunti di riflessione.
Notes:
1. Sarebbe stato forse più opportuno rifarsi al volume della Vizedom (Rites and Relationships: Rites of Passage and Contemporary Anthropology, Beverly Hills, CA, 1976). La tesi risulta oltretutto citata di seconda mano da un M. Wilson 1957 che però manca in bibliografia (pag. 29 nota 3).
2. Forse alla discussione sul concetto di eroe avrebbe giovato tenere in considerazione i lavori che ruotano attorno al Centre International d'étude de la Religion Grecque Antique, come quelli raccolti in V. Pirenne-Delforge-E. Suárez de la Torre, Héros et héroïnes dans les mythes et les cultes grecs, Actes du Colloque Vallodolid 1999, Kernos Suppl. 10, Liège 2000 (recensito in BMCR 2002.12.07).
3. K. J. Hame, "Female control of funeral rites in Greek tragedy: Klytaimestra, Medea, and Antigone", Classical Philology 103.1, 2008, pp. 1-15.
4. Questo aspetto era stato già individuato da Émile Durkheim (si veda al proposito l'analisi di P. Metcalf-R. Huntington, Celebrations of death, Cambridge 1991, pp. 48 sgg.) e ribadito in pagine illuminanti dall'antropologo italiano Ernesto de Martino (Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre al pianto di Maria, Torino 1958).
5. Si veda di recente l'analisi in M. L. Catoni, La comunicazione non verbale nella Grecia antica, Torino 2008, pp. 166 sgg.
6. L'analisi sarebbe stata più equilibrata se si fosse tenuto conto del fondamentale lavoro di G. Ahlberg, Prothesis and ekphora in Greek Geometric Art, Göteborg 1971. Tra i lavori che sarebbero stati utili, ricordo anche: M. Pedrina, I gesti del dolore nella ceramica attica (VI-V secolo), Venezia 2001; I. Huber, Die Ikonographie der Trauer in der Griechischen Kunst, Mannheim-Mohnesee 2001; J. H. Oakley, Picturing Death in Classical Athens, Cambridge 2004; E. Brigger-A. Giovannini, "Prothésis: étude sur les rites funéraires chez les Grecs et chez les étrusques", MEFRA 116, 2004, pp. 179-248.
7. Cfr. F. Cordano, "Morte e pianto rituale nell'Atene del VI sec. a.C.", Archeologia Classica 32, 1980, pp. 186-197; H. A. Shapiro, "The Iconography of Mourning in Athenian Art", American Journal of Archaeology 95, 1991, pp. 629-656.
8. Diversi contributi interessanti sono ora raccolti in T.P. Wiseman, Unwritten Rome, Exeter 2008. Sul tema dell'orazione funebre romana è importante il breve articolo di E. Gabba, "Dionigi d'Alicarnasso sull'origine romana del discorso funebre", Studi Classici ed Orientali 46, 1998, pp. 25-27.
9. Al riguardo rinvio al lavoro di M. Carroll, Spirits of the Dead: Roman Funerary Commemoration in Western Europe, Oxford 2006.
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