Reviewed by Stefano Valente, University of Bologna (stefano.valente@unibo.it)
La nascita di una nuova rivista specializzata è un evento da salutare con favore, qualora si sia in presenza di un prodotto accurato, ricco di contributi stimolanti, vagliati e garantiti da un valido comitato scientifico. E tali requisiti si riscontrano in Scripta. An International Journal of Codicology and Palaeography.
Sotto il profilo formale, il volume si caratterizza per l'ampio formato; il testo è disposto su due colonne per pagina; numerose sono le tavole, generalmente di buona qualità ma stampate solo in bianco e nero. Quanto alla lingua, dei 13 contributi di questo primo volume, 9 sono in italiano, 3 in francese ed uno in inglese.1
Il volume è introdotto dalla "Presentazione" (p. 7) dei direttori Mario Capasso e Francesco Magistrale, nella quale sono esposti sinteticamente gli scopi di questa nuova rivista di paleografia e codicologia, che intende porsi nel solco del glorioso periodico Scrittura e civiltà, cessato nel 2001. Di conseguenza, l'ispirazione di Scripta vuole perciò essere di stampo malloniano (paleografia intesa nel senso più ampio di storia della cultura scritta), proponendosi di "aprirsi ad un'indagine, su qualsiasi tipologia testuale e su un panorama linguistico assai ampio, che raccordi la tradizione greca e latina, quella del medioevo volgare ed il mondo grafico arabo, armeno, copto, egizio, georgiano, persiano e slavo". L'interesse sarà quindi focalizzato attorno alla cultura scritta nell'ambito della civiltà europea e mediterranea ed ai suoi supporti materiali, con attenzione alla loro evoluzione storica.
Questo vasto panorama è in effetti contemplato, con poche eccezioni, nel presente volume: per meglio chiarire gli argomenti e gli scopi della rivista si fornirà qui un riassunto, necessariamente conciso, dei singoli contributi.
Colette Sirat nel suo "Hommage à Jean Irigoin" (pp. 9-10) traccia un rapido profilo della carriera scientifica e professionale del grande paleografo e codicologo francese, scomparso nel febbraio del 2006.
La breve nota di Mario Capasso, "Σίττυβα in una statua del museo greco-romano di Alessandria" (p. 11), concerne l'identificazione di questo dispositivo (un'etichetta di papiro, pergamena o pelle applicata sul margine di un rotolo per indicarne il contenuto) in una raffigurazione scultorea di una figura maschile togata: ai suoi piedi, appoggiati sopra una capsa, si osservano due rotoli che sembrano provvisti di tali etichette e che costituiscono perciò "l'unica rappresentazione scultorea" conosciuta.
Mario Capasso e Natascia Pellé ("Frederic George Kenyon e la paleografia dei papiri ercolanesi", pp. 13-25) pubblicano per la prima volta alcuni estratti del corso di paleografia greca tenuto da Kenyon all'Università di Cambridge nel 1900-1901 per le Sandars Lectures in Bibliography. L'importanza di questo ciclo di lezioni, intitolato The development of Greek Writing B.C. 300-A.C. 900, va al di là delle analisi paleografiche compiute sui singoli manufatti e consiste soprattutto nel fatto che esse rappresentano "lo stadio più completo e più moderno per struttura e metodi" (p. 25) dello studio di Kenyon nel campo della paleografia ercolanese. Distinguendosi per ricchezza di esempi e di argomentazioni, questo corso costituisce perciò il sicuro anello di congiunzione tra The Palaeography of Greek Papyri (London 1899) e The Palaeography of the Herculaneum Papyri (in Festschrift Theodor Gomperz. Dargebracht zum siebzigsten Geburtstage am 29. März 1902 von Schülern Freunden Kollegen, Wien 1902, pp. 373-380).
In "Uno sconosciuto frammento innografico di Terra d'Otranto" (pp. 27-31) Marco D'Agostino identifica in un foglio pergamenaceo utilizzato come copertina di un codice cartaceo dell'Archivio di Stato di Roma (Stato Civile - Appendice: Libri parrocchiali 1565/1725, I/1) un frammento di un libro innografico tipico della liturgia italogreca, la Παρακλητικὴ τῆς θεοτόκου, sino ad ora conosciuto solo tramite manoscritti di provenienza calabrese. Dal momento che la scrittura è identificabile nella cosiddetta barocca otrantina (databile alla fine del XIII secolo), questo foglio rivela il suo valore come unico testimone attualmente conosciuto di quest'opera liturgica ascrivibile all'area salentina. In considerazione di ciò D'Agostino fornisce un'edizione degli inni qui contenuti.
Flavia De Rubeis si occupa de "La capitale romanica e la gotica epigrafica: una relazione difficile" (pp. 33-43), analizzando le interferenze tra questi due sistemi grafici nelle scritture esposte: a seguito dello studio di iscrizioni italiane di XIII e XIV secolo, l'adesione più fedele al canone della gotica libraria è riscontrabile nelle aree dove maggiori sono le influenze dei centri di cultura, specialmente universitari, come Bologna, Padova e Napoli. Allontanandosi invece da questi poli di irradiazione, come, ad esempio, a Venezia, in Puglia ed in Sicilia, la gotica epigrafica si mostra aperta ad accogliere anche elementi allotri, derivanti ora dalla capitale romanica, ora dalla maiuscola epigrafica greca.
Nello studio "La décoration des manuscrits grecs et slaves (IXe-XIe siècles)" (pp. 45-59) Axinia Dzurova focalizza la propria attenzione sul rapporto intercorrente tra la decorazione dei codici costantinopolitani e slavi di questi secoli. La generale povertà di motivi ornamentali nei manoscritti slavi è ulteriormente confermata dal confronto con alcuni testimoni greci poco conosciuti, il Sofia, Cârkoven istoriko-arhiven institut, gr. 803 ed il Sofia, Narodna Biblioteka Sv.sv. Kiril-i-Metodij, gr. 95 (che originariamente costituivano un unico codice, contenente opere di Gregorio Nazianzeno e di san Basilio), il Sofia, Centralen dârzaven archiv, Rizov 3 (uno sticherario) ed il Plovdiv, Narodna biblioteka Ivan Vazov, P 99 (un evangeliario), tutti databili tra X e XI secolo e caratterizzati da un'ornamentazione nel cosiddetto stile blu. Rispetto ai codici costantinopolitani, la decorazione dei manoscritti cirillici appare asincrona, dal momento che quelli prodotti tra IX e XI secolo per la quotidiana pratica religiosa sembrano ignorare i contemporanei stili presenti nei codici bizantini in minuscola, che inizieranno invece ad essere impiegati, in varianti semplificate, solo a partire dal XIII secolo.
Paolo Fioretti ("Composizione, edizione e diffusione delle opere di Gregorio Magno. In margine al Codex Trecensis", pp. 61-75) discute del volume di A. Petrucci (a cura di), Codex Trecensis. La "Regola Pastorale" di Gregorio Magno in un codice del VI-VII secolo: Troyes, Médiathèque de l'Agglomération Troyenne, 504, I-II, Firenze 2005, aggiungendo alcune interessanti riflessioni circa la metodologia compositiva delle opere di Gregorio Magno e sui centri di copia tra tarda antichità e medioevo.
Maria Rosa Formentin ("Uno scriptorium a Palazzo Farnese?", pp. 77-102) analizza i manoscritti greci farnesiani, attualmente conservati per lo più nella Biblioteca Nazionale di Napoli, fornendone un esauriente inventario (specialmente per quanto concerne i codices Neapolitani con le segnature III AA, III B, III C, III D, III E) ed aggiungendo anche un utile indice delle filigrane. La studiosa conclude che si tratta di una collezione non omogenea ed eclettica, priva di una progettualità definita: pertanto, in un contesto simile, "si deve negare l'esistenza di un luogo di copia, ma anche di un laboratorio di restauro" a Palazzo Farnese (p. 86).
Judith Olszowy-Schlanger e Patricia Stirnemann ("The twelfth-century trilingual Psalter in Leiden", pp. 103-112) studiano il codice Leiden, Bibliotheek der Rijksuniversiteit, BGP 49 (a. 1170-1180 ca.) sotto il profilo codicologico, paleografico e testuale: esso preserva uno Psalterium Quadruplex, cioè un salterio ripartito su quattro colonne contenenti rispettivamente il testo ebraico, la versione latina di San Gerolamo, la versione greca e la cosiddetta Gallicana latina. Il testo è stato redatto da un copista (se non da più d'uno) cristiano ed occidentale ed il manufatto, nel suo complesso, è stato prodotto nella Francia sud-occidentale, forse per ragioni legate al culto più che allo studio ed alla consultazione quotidiana. La sua importanza, in ogni caso, è dovuta proprio alla sua provenienza, poiché esso "testifies to a particular sophisticated linguistic milieu in a region often neglected by modern scholars" (p. 112).
In "Un atto di vendita di un manoscritto ebraico dei Profeti e degli Scritti stilato a Bologna l'8 febbraio 1485 nel frammento 5 dell'Archivio Capitolare di Modena" (pp. 113-120) Mauro Perani edita per la prima volta il testo ebraico di questo documento, conservato nel codice Modena, Archivio Capitolare, Fr. ebr. B. XXII.5. Oltre a corredare il testo di una traduzione in italiano, egli provvede ad inquadrarlo nel contesto della comunità ebraica di Bologna e Modena tra XV e XVII secolo.
Paolo Radiciotti ("Romania e Germania a confronto: un codice di Leidrat e le origini medievali della minuscola carolina", pp. 121-144) studia un codice in protocarolina appartenuto a Leidrat, arcivescovo di Lione tra il 798 e l'814, e contenente una miscellanea teologica e filosofica, identificandone il contesto culturale di riferimento nella cerchia di Alcuino presso la corte di Carlo Magno. In un secondo momento, tenendo conto dei risultati di questa indagine, l'autore ritorna sulla vexata quaestio riguardante le origini della carolina, per concludere che "gli scribi-intellettuali di età carolingia, che sono in contatto diretto coi manoscritti tardoantichi in minuscola libraria, attuano un processo interno alla loro scrittura usuale, nel senso di una semplificazione della tradizione corsiva [...] attraverso la riduzione dei legamenti" (p. 144). Proprio in questi contesti eruditi, e specialmente nelle scritture personali di singoli scribi, vanno pertanto identificati i primordi di tale grafia, che affonda le proprie radici nella minuscola latina tardoantica.
In "Vingt manuscrits (hebreux, grec, latin-grec, grec-arabe, arabes) pour un seul palimpseste" (pp. 145-156) Colette Sirat, François Déroche, Uri Ehrlich e Ada Yardeni analizzano il palinsesto Milano, Biblioteca Ambrosiana, L 120 sup., contenente nella scriptio superior un Paterikon e redatto verisimilmente a cavallo tra XI e XII secolo nel monastero di Santa Caterina del Sinai. Lo studio dettagliato dei singoli fascicoli permette di determinare che il codice è stato costituito mediante il reimpiego di almeno 20 manoscritti, specialmente arabi ed ebraici, che sono studiati singolarmente e di cui si fornisce una sintetica ma accurata descrizione materiale, grafica e contenutistica.
Gaga Shurgaia, "La scrittura georgiana. Storia e nuove prospettive" (pp. 157-173), ripercorre la storia dell'evoluzione di questa scrittura con ricchezza di dettagli, precisando che "l'alfabeto georgiano nasce come asomtavruli [cioè maiuscola] angolosa, dalla quale si sviluppa la variante rotonda, attestata nel I-II secolo d.C." (p. 172). Da questa trae probabilmente origine la minuscola angolosa, chiamata nusxuri, forse nel corso dell'VIII secolo, da cui si sviluppa in seguito la forma rotonda (come esito di una progressiva corsivizzazione) che è alla base dell'attuale scrittura georgiana, la "mxedruli, attestata già nel corso del X secolo."
In conclusione, il primo volume di Scripta, che si distingue anche per una bassa percentuale di refusi, è ricco di contributi stimolanti e costituisce un valido inizio; ci si augura che in futuro la rivista possa godere di una cadenza regolare e di una costante ampiezza di orizzonti.
Notes:
1. Trattandosi di una rivista che intende proporsi come internazionale, secondo la dicitura del sottotitolo, a mio giudizio si avverte solo l'assenza di abstracts relativi ai singoli contributi, che possano facilitare una prima fruizione; in tal senso, inoltre, potrebbero essere approntati anche un indice dei materiali citati (epigrafi, manoscritti, papiri e sculture) e delle illustrazioni. Si tratta comunque di lievi mancanze, che potranno essere utilmente sopperite nei prossimi volumi.
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