Lorenzo Gagliardi, Università degli Studi di Milano (lorenzo.gagliardi@unimi.it)
Nel libro che qui si recensisce, l'autore Alejandro Bancalari Molina tratta del tema della romanizzazione nei territori extra-italici, nel periodo compreso tra l'impero di Augusto e quello di Caracalla. Non mancano peraltro accenni anche all'espansione romana nell'età repubblicana. Lo scopo principale dello studio compiuto da Bancalari Molina è quello di dimostrare che la romanizzazione può essere interpretata come un "macrofenomeno", che ha rappresentato un precedente, in sostanza un equivalente, della globalizzazione di cui si parla anche in relazione all'epoca contemporanea. Ovviamente, l'autore avverte con attenzione che vi è una profonda differenza fra la globalizzazione romana e la mondializzazione dei giorni nostri, in quanto la prima si caratterizzò per essere un processo in cui si distinsero da una parte i conquistatori e dall'altra i conquistati, elemento che sembra non essere presente nei tempi in cui noi viviamo. Cionondimeno, a suo avviso, la Romanitas può essere convenientemente vista come un modello, il quale diffuse nell'impero uno stile di vita e un'identità comuni, che tesero a condurre a una certa integrazione culturale, a un modello di società unitario e sostanzialmente a un'assimilazione fra Roma e i popoli sottomessi. Non è peraltro assente dalla consapevolezza dall'autore anche la considerazione che la costruzione di un tale mondo nuovo, globalizzato, non avvenne unicamente attraverso un processo di diffusione di elementi culturali dai vincitori ai vinti: anzi, i popoli dominati furono per larghi aspetti in grado di conservare la propria identità e le proprie tradizioni e quindi di trasmetterle, come in un procedimento osmotico, a Roma. Ma non è di quest'ultimo aspetto che si tratta nel libro: esso viene qua e là accennato, senza che vi si presti particolare attenzione. Nel libro si tratta invece, assai ampiamente, del fenomeno opposto, quello della diffusione dei valori culturali della Roma dominatrice, dal centro alla periferia dell'impero.
Dopo un prologo di Cesare Letta, il volume si apre con una introduzione dell'autore, che delimita il campo temporale e spaziale della sua indagine. Del primo abbiamo già detto. Quanto al secondo, si tratta, in relazione al secondo secolo dell'impero, periodo della massima espansione, di un vasto spazio di dieci milioni di chilometri quadrati (tre dei quali occupati dal mare Mediterraneo). Tra oriente e occidente, Lusitania ed Eufrate, la distanza massima era di 4500 chilometri, mentre tra settentrione e meridione, dalla Scozia al basso Egitto, la distanza massima era di 2500 chilometri. Si trattava insomma quasi di un rettangolo, abitato da circa settanta milioni di abitanti e diviso amministrativamente in 45 province all'epoca di Augusto, aumentate a 101 con le riforme di Diocleziano. Ciò detto, si apre il primo capitolo, nel quale si fornisce quella che, secondo l'autore, è la definizione di romanizzazione, ovvero una sua identificazione con l'imperialismo: è vero che quest'ultimo vocabolo comparve solo intorno al 1870, ma il meccanismo a esso sotteso è visto come un problema antico, che si può fare risalire all'età di Roma, ovvero quando uno Stato iniziò, per motivi politici, economici e strategici a espandersi e a controllare numerosi altri popoli. Quanto alle ragioni che condussero i Romani al loro imperialismo, Bancalari Molina propone di individuarle da un lato nell'ambizione della classe aristocratica romana di conquistarsi gloria attraverso le conquiste e, dall'altro, nella speranza dei cittadini di classe media di guadagnarsi un'ascesa sociale mediante l'accaparramento di ricchezze. Correttamente, l'autore individua tre grandi fasi dell'espansione romana. La prima fu quella del terzo secolo a.C., da lui chiamata imperialismo "di protezione", ispirata al bellum iustum, basata soprattutto sul sistema federativo. La seconda fase iniziò con la guerra annibalica e si caratterizzò per essere un periodo di conquiste dure e brutali, ispirate a un imperialismo "sfrenato". Infine, da Augusto alla morte di Alessandro Severo ebbe inizio un imperialismo individuato come "romanizzatore", volto a diffondere la pax Romana. In quest'ultima epoca, scrive Bancalari Molina, si trattò non soltanto di una conquista, ma di un processo mirato a coinvolgere i popoli indigeni delle terre conquistate dai Romani nella costruzione di una nuova entità: un impero di cui anche i vari popoli si sentissero partecipi. Pertanto, l'imperialismo romano di età imperiale si attuò non soltanto con la repressione, ma anche con la tolleranza, con la ricerca del consenso e con la integrazione. Si tratta di una ricostruzione storica a nostro avviso nel complesso condivisibile, che può apparire confermata anche dal fenomeno, particolarmente osservabile in alcune realtà locali (ben documentate ad esempio nel caso della Gallia), ove gli appartenenti alle classi più alte delle comunità indigene diedero talvolta inizio a un processo di auto-romanizzazione e di identificazione volontaria con Roma. Bancalari Molina sottolinea opportunamente che in gran parte gli indigeni dei territori conquistati accettarono la pax Romana anche perchè i Romani spesso acconsentirono a concedere la loro cittadinanza, sì da suscitare un maggiore coinvolgimento dei provinciali nell'impero, cosa che avvenne in maniera definitiva con la Constitutio di Caracalla del 212 d.C.
Nel secondo capitolo si compie una rassegna dei modelli storiografici sviluppati dagli studiosi per interpretare l'espansionismo romano. Bancalari Molina ne individua e considera ben otto. Il primo è quello classico, risalente a Mommsen, dell'imperialismo difensivo, per cui Roma non si sarebbe espansa secondo un piano prestabilito, ma si sarebbe vista obbligata a farlo dalle circostanze. Il paradigma in un certo senso opposto fu quello sviluppato, tra gli altri, da Bénabou, secondo il quale il processo di romanizzazione andrebbe interpretato dal punto di vista della resistenza dei popoli che si opposero alla sottomissione. Si analizzano poi in successione gli altri modelli, per cui l'espansione romana sarebbe stata il frutto di una politica imperialistica offensiva, oppure sarebbe stata agevolata dalla spinta all'autoromanizzazione degli indigeni, oppure avrebbe avuto lo scopo di distruggere le società indigene, oppure ancora si sarebbe espressa principalmente attraverso lo sfruttamento delle risorse naturali delle province, o infine avrebbe mirato a creare una società creola. Nessuno di questi modelli è però accettato da Bancalari Molina, il quale, sviluppando alcune suggestioni di un dibattito molto recente,1 cerca di proporre un modello nuovo: quello secondo il quale la romanizzazione dovrebbe essere assimilata e identificata con il processo che oggi è noto con il nome di globalizzazione. È questa l'idea centrale e portante di tutto il libro. Secondo l'autore, infatti, il modo corretto di interpretare la romanizzazione è quello di vederla come l'effetto di un processo graduale che tese all'irradiazione dei costumi e dei modi di vita romani e, al contempo, alla recezione di essi da parte degli indigeni delle varie regioni. Un tale processo ebbe inizio con la conquista da parte di Roma dei territori provinciali e si concluse non soltanto con la diffusione della cultura romana, ma invero con la formazione di una realtà nuova, una civilizzazione romano-provinciale.
Il terzo capitolo, di oltre cento pagine, rappresenta il cuore del volume. In esso l'autore individua e considera quelli che, a suo avviso, furono gli undici principali fattori della romanizzazione. Nell'ordine con cui vengono esposti, si tratta dei seguenti: l'integrazione dell'aristocrazia locale e provinciale nell'amministrazione dell'impero; la concessione della cittadinanza romana; la coesistenza del diritto romano e dei diritti locali; il sistema stesso di governo dell'impero, che consentiva al suo interno il permanere di una pluralità di organizzazioni politiche locali; un'economia globale basata sul libero commercio; la diffusione, seppur su scala limitata, di scuole finanziate con mezzi statali; il progresso della tecnologia, dagli effetti diffusi uniformemente su tutto il territorio imperiale; l'ottima rete viaria e l'efficiente sistema dei trasporti; l'efficacia di un esercito permanente, tramite il quale i soldati, anche quelli dislocati nelle più lontane frontiere, potevano assumere funzioni civili; il culto per l'imperatore, che finì con il condurre alla formazione di una vera e propria unificante religione di Stato; l'importanza dello sviluppo delle città e conseguentemente del modello di vita urbana. Bancalari Molina sottolinea opportunamente che non furono questi i soli elementi, che giocarono un ruolo nell'integrazione fra il centro e le periferie dell'impero, ma è evidente che furono i principali. E peraltro, se integrazione vi fu, non fu certo totalizzante, in quanto permasero sempre elementi di diversità nelle varie regioni: dalle lingue (soprattutto il greco nelle zone orientali), alle consuetudini locali, giuridiche e non.
Dopo l'ampio terzo capitolo, si trovano gli ultimi due, di respiro più breve. Nel quarto, si presentano alcuni esempi di antichi elogi (come l'Encomio di Roma di Elio Aristide) o di antiche voci di critica (come quella di Tacito) alle manifestazioni dell'espansionismo romano. Nel quinto, si offre un'interessante panoramica di numerose fonti (da Marco Agrippa a Strabone, da Flavio Giuseppe a Dione Cassio, a Rutilio Namaziano), nelle quali si tratta dell'orbis Romanus come sinonimo di orbis terrarum e di Roma come caput mundi. Segue un'appendice, in cui si considerano rapidamente le attestazioni di contatti tra Roma e i mondi indiano e cinese. Completano il volume le conclusioni, la bibliografia, l'indice analitico e l'indice degli autori moderni.
Alla luce di questa lettura, possiamo dire che ci troviamo di fronte a un lavoro interessante, scritto bene, di lettura agile e al contempo curiosa. Tra le varie idee esposte dall'autore, quella che ci pare più meritevole di essere qui discussa è l'idea forte del libro (esposta soprattutto nel secondo capitolo, ma ripresa anche altrove), secondo la quale tutte le teorie che in passato si sono avanzate per giustificare e interpretare l'imperialismo romano devono essere superate, in quanto esso deve essere compreso unicamente come equivalente della globalizzazione moderna. Orbene, mi pare che a proposito di questa tesi si potrebbero svolgere alcune considerazioni. In primo luogo, si potrebbe osservare che tra la globalizzazione moderna e l'antica intercorre una grande differenza nel fatto che quella moderna (che peraltro è la sola veramente "globale") si caratterizza per aspetti soprattutto economici, sociali e culturali, mentre quella dei Romani si fondava anche sull'unità politica dell'impero. In secondo luogo, si potrebbe discutere se un modello come quello proposto da Bancalari Molina, che interpreti l'imperialismo romano unicamente come globalizzazione, possa sostituirsi, ad esempio, al modello secondo il quale esso fu il frutto di una deliberata politica imperialistica offensiva: a noi pare che si tratti di due modelli non propriamente confrontabili tra loro e soprattutto che l'uno non escluda l'altro. Si potrebbe infatti ammettere che una politica imperialistica offensiva abbia portato alla globalizzazione e che quindi quest'ultima sia stata la conseguenza dell'imperialismo romano, non la ragione per la quale esso si manifestò.
Alcune considerazioni è poi opportuno svolgere a proposito del terzo capitolo, quello senza dubbio più ricco di suggestioni. Riguardo a esso, possiamo osservare che forse sarebbe stato opportuno non porre sullo stesso piano tutti gli undici fattori di integrazione che si sono individuati, ma raggrupparli in categorie e graduarli in base alla rilevanza. A nostro avviso sarebbe stato più conveniente, per la trattazione, distinguere gli elementi unificatrici aventi matrice politica (e qui si sarebbero considerate la forma dell'impero, la concessione della cittadinanza, l'importanza del diritto privato romano in dialettica con i diritti locali, le funzioni "civiche" dell'esercito), da quelli cultural-religiosi (culto imperiale, scuole) e da quelli economico-scientifici (strade, trasporti, commercio, tecnologia). Tuttavia, a prescindere da queste annotazioni strutturali, nella sostanza la trattazione di ogni paragrafo del capitolo appare ricca e informata. Entrando in alcune annotazioni critiche di maggiore dettaglio, qualche piccola incongruenza si rileva nella trattazione della cittadinanza romana, dove (p. 97), esaminandosi l'organizzazione locale nell'Italia repubblicana, i municipi vengono presentati come alleati della Urbs e si aggiunge che tra i diversi fattori che avrebbero facilitato l'integrazione e l'assimilazione naturale di "questi alleati" con Roma, vi sarebbe stata la colonizzazione: in tal modo, l'autore sembra avere messo in relazione tra loro entità locali che avrebbero dovuto essere meglio differenziate. Circa il rapporto tra diritto romano e diritti locali, sempre con riferimento all'Italia repubblicana, sarebbe stato opportuno tenere presenti, tra gli studi recenti, quelli di Luigi Capogrossi Colognesi (ci riferiamo, soprattutto, al volume Cittadini e territorio. Consolidamento e trasformazione della "civitas romana", Roma 2000) e la bibliografia in essi discussa. Trattandosi della Constitutio Antoniniana de civitate (p. 121), non sarebbe stato inutile una considerazione maggiormente ravvicinata del testo di P.Giss. 40. A proposito dell'organizzazione territoriale dell'impero e delle aree di influenza romana (pp. 136 ss.), contemplanti municipi, colonie, province, città libere, reges socii, sarebbe stato opportuno rilevare che la maggior parte di tali organizzazioni esisteva già in epoca repubblicana. Viceversa, si sarebbe potuto valorizzare maggiormente l'aspetto di novità del princeps, come contrapposto al senato. Quanto al tema dell'economia globale e del world-system, si sarebbe potuto sottolineare il fatto che, su scala molto minore, un'economia di respiro assai ampio fu attuata dai Romani già a partire dal terzo secolo a.C.
Le riserve sin qui avanzate, tuttavia, nulla tolgono al valore del libro di Bancalari Molina, che è in definitiva uno studio solido, a tratti ricco di spunti originali e molto informato sia sulla ricca bibliografia moderna sia sulle fonti (di cui sarebbe stata peraltro opportuna la presenza di un indice alla fine del volume). Se qualcuno dei singoli temi specifici può apparire non molto approfondito, questo è pienamente comprensibile in base al taglio dello studio compiuto dall'autore, che ha inteso offrire una panoramica generale e agile sul tema della romanizzazione nei primi due secoli dell'impero, pervenendo a risultati che dovranno essere tenuti in considerazione da chi altri, in futuro, vorrà occuparsi della materia.
Notes
1. J. Malitz, "Globalisierung? Einheitlichkeit und Vielfalt des Imperium Romanum", in W. Schreiber (ed.), Vom imperium Romanum zum Global Village. "Globalisierungen" im Spiegel der Geschichte, Neuried 2000, 37-52; M.J. Hidalgo de la Vega, "Algunas reflexiones sobre los límites del oikouméne en el Imperio Romano", in Gerión 23 (2005), 271-285; D. Favro, "Making Rome a World City", in K. Galinsky (ed.), The Cambridge Companion to the Age of Augustus, Cambridge 2005, 234-263; R.J. Sweetman, "Roman Knossos: The Nature of a Globalized City", in American Journal of Archaeology 111 (2007), 61-81; R.B. Hitchner, The First Globalization: The Roman Empire and Its Legacy in the 21st Century, Oxford 2007.
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